venerdì 4 settembre 2009

Riprendiamoci tutto, anche quello che non abbiamo mai avuto!

"La bellezza, quando non è una promessa di felicità, deve essere distrutta"
GUY DEBORD

Da quella minchiata di film che era "Non ci resta che piangere" (diretto, si fa per dire, da Troisi e Benigni nel 1984) c'è da recuperare un concetto che stimo al punto di essermene servito in qualcuno di questi post: la mostruosità del passato rispetto al presente. Ovviamente, un concetto non valido per ogni presente che sia guerra, dittatura, recrudescenza religiosa, post-catastrofe naturale, cose di questo tipo, ma che, per il resto, dovrebbe non fare una piega, se si considera il perfezionamento naturale di due componenti importantissime della nostra vita, quali la libertà da schemi culturali e la comodità.
Grazie alla prima, e nonostante la resistenza tenacissima di chi la teme, oggi ci si sente meno reietti se non si mette su famiglia, se si è omosessuali, se si convive con chi non si ha né rapporto amoroso né legami di sangue, se si vive senza coltivare relazioni, se si fa un lavoro singolare, se si amano cose singolari, se si ama in un modo singolare, se si svelano proprie fragilità interiori, persino da maschietti. La seconda invece, per nulla osteggiata, ci ha soprattutto consentito di snellire tante operazioni propizie al lavoro o alla vita quotidiana che non producono né piacere né pensiero, il che non è poco.
Questo, anche se nel modo più becero, i due comici lo avevano detto. Avevano anzi scelto di rappresentare il mostruoso di un'epoca magnificatissima come il proto-rinascimento italiano, con in primo piano la sua archetipicità civile, la sua violenza. E si erano spinti a smitizzare di quell'epoca anche l'intelletto, il genio, con quel Leonardo macchietta, un po' lento rispetto ai due malcapitati del nostro tempo.
Peccato soltanto che si sia trattato di pura caciaroneria, di paccate sulla spalla. Perché proprio allora, negli anni Ottanta, quando quelle libertà cominciavano a svettare dalle nebbie dell'ideologia, e quelle comodità a fare capolino, avrebbe dovuto prenderne atto per prima la società della cosiddetta cultura, dal produttore al consumatore, e non certo per assecondare pedissequamente, come in parte ha fatto, l'ondata della grande reazione all'impegno, ma per disfarsi finalmente dell'attitudine specialitaria e autoreferenziale che la separa dalla vita ancora oggi, dopo che certo pensiero "spregiudicato" (Stirner, Nietzsche, Paul Lafargue) ha partorito postumi e postumi (situazionismo, antipsichiatria, arte nera, cyber etc.).
Intendendo per cosiddetta cultura la creazione, passata e presente, di prodotti e pensiero non vincolati all'utile, si deve dire che questo bene ci ha assistiti per generazioni, contribuendo a sollevare la qualità del nostro essere da una vita in cui la scarsa libertà aggrediva il desiderio e la scarsa comodità il tempo. Con la penale, però, che lo stesso pensiero sommario della vita comune, soggetticida per definizione, ne condizionava lo statuto. Non dimentichiamo che i borghesi ottocenteschi si sorbivano concerti sinfonici protratti da metà pomeriggio a notte fonda, che Freud, per leggittimare la sua sperimentalissima disciplina, infarciva di mitologia greca i suoi scritti, né che tanti giovani degli anni Sessanta e Settanta si costringevano a leggere tutto Marx, tutto Lenin, tutto Gramsci.
Ma oggi, proprio se ci sentiamo addosso una coscienza di veri soggetti, che ce ne facciamo di una cosiddetta cultura che, prevalentemente, ci alienerebbe? Che, per usarla, dobbiamo comportarci come chi accende un cero in chiesa? Dovremmo persino prendercela con Debord (di cui tanto ci serviamo) per aver scritto "La società dello spettacolo" producendo lui stesso uno spettacolo di "pédanterie parisienne", e di certo dobbiamo incazzarci con chi oggi cede a quel ricatto, chi suscita o predica l'accensione di quel cero. Riteniamolo guastatore del nostro tempo insieme alla tivù, agli eventi, alle discipline della potenzialità, al neo-razzismo, al neo-provincialismo, all'omofobia... Perché guastatrice è la sua ignavia, essendo ignavia l'incapacità di gestire un pensiero indipendente dalle deontologie settarie dell'intellettualismo. E' un'ennesima declinazione del multiforme bisogno di appartenenza, e con l'aggravante che consegnare il pensiero al monopolio dell'intellettualismo significa proteggerne pubblicamente uno stato di specialità separata dal sentire quotidiano.
Il danno riguarda soprattutto le produzioni artistiche che più godrebbero della facoltà di "abitare poeticamente il mondo", cioè il cinema, la musica e la letteratura - l'arte visiva (decisamente), la poesia (con qualche eccezione) e il teatro (malgrado tutto) hanno in merito possibilità costituzionalmente assai più ridotte.

Il cinema, il medium caldo per eccellenza (McLuhan) che contiene immagine, parola, vicenda, personaggi, pensiero sottointeso o enunciato, è naturalmente in cima a questa classifica. Ma proprio per questo è il luogo in cui il puro-durismo intellettuale, ovviamente in minoranza, più s'incarognisce. E non per far distinguere un cinema (d'autore) che è visione dello psicologico o del sociale o del politico da uno (di genere o no) che sacrifica ogni profondità allo spettacolo affabulatore, ma per difendere lo statuto artistico del cinema in sé e in senso disciplinare, dimenticando del tutto che la vera ricchezza del cinema dipende molto dal suo essere arte del "cosa", e forse un po' meno dall'esserlo del "come".
Ora, che il cineasta lavori a un rapporto stretto tra ciò che vuole dire e il linguaggio filmico, e che per questo talvolta lo sovraesponga, mi sembra non soltanto un sano diritto dell'arte, ma anche una pratica che aderisce a un suo auspicato fine funzionale. Come si può non apprezzare che Hitchcock abbia girato "La finestra sul cortile" facendo sì che lo spettatore vedesse esattamente come il protagonista? O che Polanski, ne "Il coltello nell'acqua", abbia girato le claustrofobiche sequenze del trio in barca dalla barca stessa? Del resto, lo spartanissimo Bresson girava spesso tante volte una stessa scena, se non una stessa sequenza, per ottenere la significanza desiderata - e sembra sia nato così il raddoppio della scivolata suicida di Mouchette, non narrato da Bernanos. Ma quanto toccano i film di Bresson!
Sterilissimo, invece, l'atteggiamento del cineasta (oggi, fortunatamente, in via di estinzione) il cui scopo è il cinema stesso, e addirittura depauperante quello del cinéphile ortodosso, il timorato dei Cahiers, il quale, pur non ammettendolo mai, sottostima il valore della dialettica tra arte e vita, per riproporre l'arte da contemplare. Tipica, infatti, è la sua difesa del film in lingua originale con sottotitoli, e altrettanto il suo solito alibi (invocato con un pizzico di coscienza sporca) di poter ascoltare le voci e le intonazioni originali degli attori. Ma quali voci e quali intonazioni! (sempre ammesso che il film sia in presa diretta) Qui si fa il verso alla pornografia: si vuole scambiare un tutto vitalmente imperfetto (il film doppiato nella lingua in cui pensa e sente chi lo guarda, con incidentali alterazioni di tono e/o di testo) per un' insieme "non vivibile" di parti connaturatamente perfette (recitazioni originali dai contenuti poco o per nulla comprensibili e immagini da cui ci si deve continuamente distogliere per leggere i sottotitoli).
Ovvero, il paradosso è servito: il cinema che ci parlerebbe non può essere vissuto, ma soltanto visto, perché è arte e l'arte non va che contemplata. La funzione del vivere quel medium caldo (contenente immagine, parola e bla bla bla) viene evidentemente delegata al cinema di evasione e alla tivù. E questo, mandando in pensione Brecht, Gramsci, persino Pasolini, i quali di piacere dell'uso dell'arte non hanno certo mai parlato, perché i tempi non erano maturi, appunto, ma di funzione dell'arte nella società altro che!
Non è un caso, d'altronde, che proprio Pasolini fosse tra i particolarmente schierati per il doppiaggio, accanto a Bunuel, Fellini, Bergman, Truffaut, Ferreri..., nè che tra i particolarmente contrari si ritrovino Godard, Straub, Garrel, Wenders... C'è da rifletterci!

Passiamo ora alla musica, la più psichica delle arti, la più importuna delle arti (Kant), l'arte connaturatamente romantica (Schumann).
Ebbene, quest'anima della musica indipendente dall'artistico - come lo è il sentimento dall'intelletto - è da secoli quella contro cui l'idealità artistica del musicista lotta per avere la meglio, e il più delle volte riuscendoci: da Bach che la sublimava nella codificazione delle forme a Cage che la liquidava, un po' ingenuamente, come roba passata. Questo, al punto che ci si chiede quanto la musica più comunemente considerata "d'autore" effettivamente ci parli.
Certo, la musica che altrtettanto comunemente si dice "popolare" ha grossi limiti: essenzialmente una musicalità palese ma elementare, dovuta alla necessità, nella maggior parte dei casi, di supportare un testo, di "cattiva coscienza" o presunto poetico che sia. Mentre l'ascolto emotivo, soprattutto se dipendente da un'effettiva domanda di musica e non da associazioni ad altro, richiederebbe un musicale ricco, capace per propria ricchezza di trasmettere emozioni. Il fatto è pur sempre che la musica colta, per definizione la più ricca, non ha mai smesso di fare i conti con quello statuto di classicità severa, altomimetica e intimidatoria, al quale ha richiamato anche l'espressione di emozioni all'origine autenticissime (da Beethoven al romantici stessi), fino a diventare, nel corso del Novecento, autoreferenzialità pura, e con il placet dell'elitarissimo consumatore, cui neppure più si addice questa qualifica, dal momento che la sua domanda non è più di musica, cioè psichica, strutturale, ma di cultura, cioè mentale, sovrastrutturale.
Ricordo, in merito a questo, una grossolana affermazione di Paolo Castaldi alla trasmissione tv di Berio "C'è musica e musica". Aveva detto che "...la differenza tra la musica senza aggettivi - intendendo naturalmente quella colta - e le altre musiche è che la prima è creata secondo il gusto del compositore, le altre secondo il gusto del pubblico". Grossolana per la grossolanità dello scambio tra l'ampiezza umanistica del concetto di gusto e il suo minuscolo spicchio di operatività nell'ortodossia disciplinare. Ovvero, che cos'è il gusto in opere come "4,33" di Cage o gli stessi collage castaldiani? E che cosa sarebbe un gusto-del-pubblico in cui riconoscere da Celentano a Coltrane? Siamo al volghetto aristofaniano che prendeva Socrate per sofista!
Ma adesso arriva il bello: lo stesso Berio si era - evidentemente - preoccupato che per tutte le puntate della sua trasmissione non fosse mai pronunciata la parola jazz, come se la cosa non esistesse. E giustamente, dal suo punto di vista, perché è proprio dal jazz che la sua riserva di allettamento linguistico doveva difendersi: dalla vera mina vagante della musica, alla quale appartengono insieme la romanticità e l'idealità autoriale, la centralità del musicale e un'esclusiva libertà-di-essere-liberi, infinitamente più tale di quella obbligata e ingessata del musicista di ricerca.
Forse nessuna musica sa parlarci quanto il jazz, almeno quello che si è fatto da Lester Young in poi, tolti i Chet Baker, i Keith Jarrett, gli italiani "bravi" etc. Perché nessuna musica è così integralmente psichica, così autenticamente interprete di quell'anima che la musica avrebbe al suo centro. Agli ultimi posti (immaginandoli come i vertici inferiori di una Y capovolta) piazzerei di certo il solito Cage - con suoi derivati - e le canzoni di Sanremo, in un mezzo fluttuante (dove la Y si biforca) il rock, ladro di emozioni musicali e no di ogni tipo, mentre un bel secondo posto, ahinoi, non ci resta che concederlo a pagine classiche, e per giunta passate, riservandoci però la facoltà di distinguere quelle che ci parlano da quelle, tanto più numerose, che sono solo compostezza, compassatezza, retorica... Almeno con l'arte psichica, cerchiamo di non fare i servi!

Per svariati motivi, invece, la facoltà di non magnificare in blocco i prodotti della cosiddetta cultura è abbastanza comune in ambito letterario. Non soltanto il lettore senza pretese dice che Burroughs è illegibile (perché gli fa perdere il filo), ma anche il lettore forte, scafato e sapiente, che semmai lo giudica inutilmente pirotecnico. E questo stesso lettore si consente magari di amare Gadda ridendo di Manganelli, di leggittimare le paranoie di Handke e non quelle di Bernhard, di sentire lo sperimentalismo di Butor e chiedersi perché mai Robbe-Grillet abbia fatto lo scrittore. Del resto, già Nabokov dichiarava di amare tanto l'"Ulisse" e di disistimare del tutto il "Finnegan's Wake".
In letteratura, infatti, il problema si presenta ribaltato rispetto sia al cinema che alla musica. Prima di tutto, nel senso che chi legge rivendica sempre, a sua misura, un diritto al riscontro di quell'atto comunque impegnativo. Ma anche in un altro senso: che gli scrittori, da un bel po' di tempo a questa parte, tendono a curare sempre meno la tridimensionalità dei personaggi e, semmai, sempre più una qualsiasi strategia di persuasione: più di tutto, trattare di soggetti corali e/o di "fatti inauditi", non importa se veri o no. E qui, c'è poco da fare, anche una letteratura sedicente alta e come tale riconosciuta diventa puro intrattenimento, passatempo che non scalfisce. Perché pastrugnare con i grandi fatti del male, quei misfatti che è un eccezione commettere, non è mai la stessa cosa che con una vicenda che, proprio per assenza di inaudito, potrebbe essere la propria. Si tratta ancora una volta di scegliere se essere spettatori o protagonisti, con la differenza che qui lo spettatore non è un timorato della cultura, ma un timoroso della sua esistenza al quale la società della letteratura offre il fianco.
In compenso, non si scrivono più finnegans-wake(s). No, in letteratura il monumento autoreferenziale non tira più, neppure in Francia. E questo, in sé, è già un buon segno di progresso. Ma era proprio necessario che quell'acqua sporca fosse buttata via con dentro il solito bambino? Cioè, che la letteratura sacrificasse davvero a un gusto del pubblico, questa volta effettivo, il suo male e il suo bene insieme? Fatto sta che le cose sembra siano andate proprio così: probabilmente per un sommario, pedestre timore che la carta stampata debba adeguarsi a un'epoca così prodiga di distrazioni.

Dunque, di fronte a una vita "migliorata" perché mediamente liberata di alcune mostruosità, scomodità e fonti di scarsa realtà, la cosiddetta cultura si sarebbe comportata mediamente male, non migliorando o addirittura peggiorando, per un verso o per un altro: chi la fa sarcofago e chi la fa escort, con la conseguenza media di farla perdere di vista come risorsa per la nostra felicità.
Perciò, da aspiranti felici, riprendiamocela! Ma migliorandola noi, se non sa farlo da sé, a partire da cosa usarne e come. E facendoci un baffo di tutta quella nata da sé stessa, che giustificatamente sentiamo distante da noi, se non penitenziale. Ricordando, invece, che chi produce cultura, come pensiero o come arte, non può avere altro movente onesto che rendere pubbliche le sue convinzioni, il che, in una società progredita, dovrebbe significare renderle utili, "per tutti e per nessuno", come diceva Nietzsche.
E' il punto in cui il discorso può diventare aleatorio, perché l'utilità della materia extra-utile si verifica soltanto quando almeno uno dei suoi tratti parla alla nostra esistenza. E sappiamo bene di non essere fatti in serie. A me, per esempio, sono utili Nietzsche, Freud, Marcuse, Lefebvre, Debord, Vaneigem e nessun filosofo tout court, Bunuel e non Orson Welles, Coltrane e non Stockhausen, Schnitzler e non Quéneau - e tutti con provvidenziali tagli di mio comodo. Ma che cosa ne so di quello che è utile a chi è altro da me?
Una sola cosa posso dire: che questo uso - o piacere dell'uso - è l'opposto del culto, e perciò l'antidoto esistenziale alla divinizzazione del soggetto usato, il quale non è comunque una divinità, non esistendone. Beethoven e Leopardi, per esempio, sono eventualmente "grandi" per aver fatto mondana la sapienza del depresso cronico, ed è soltanto per becera pruderie della cosiddetta cultura che quella causa incandescente ci viene tuttora contrabbandata per altre più astratte e arbitrarie, tipo coscienza-della-caducità-della-vita o simili arie fritte. Mentre "grande" non lo è mai l'artista che osa semplicemente per assenza o rimozione del sentimento. Il suo movente è ermafrodito e le sue creazioni inutilizzabili fuori della specialità.
E noi, smettiamola di ammirare qualcosa soltanto perché è "dell'altro mondo"!
Detto questo, e non volendo dilungarmi oltre su un blog, invito (con scarse speranze) il timorato della cultura a riflettere sulle sue posizioni e (più ottimisticamente) l'intimorito dalla cultura a considerare quel baffo che può farsi di tutta la cultura che gli appare lontana e mettersi sulle tracce di film, musiche, letture che gli parlino. Perché qui c'è da cercare di vivere bene, e le stronzate abbiamo visto che non ci bastano. C'è da diventare tutti soggetti DOC, tutti padroni: non di altri, s'intende.

(Elaborazioni digitali di Cristiano Mattia Ricci)



mercoledì 1 luglio 2009

Masculin féminin 2009 (ovvero due modi di non sentirsi innamorati a Milano)

E' soprattutto quando è lieta e innocente che la vita non ha pietà.
Pier Paolo Pasolini


1. Tizio, single, dopo la sua solita intensa settimana lavorativa, si ritrova al sabato pomeriggio senza impegni. Immancabile depressione del week end. Come distrarsene? Una parola, per chi non ha interessi di nessun tipo! Tanto che, senza accorgersi, scivola a picco sul chiedersi che senso abbia la sua vita, tutto quel lavoro, quell'efficienza prodigata, quei soldi accumulati. Si vergogna della sua solitudine. Soprattutto di non aver messo su famiglia come tutti i suoi amici e colleghi - che al week end, infatti, hanno sempre un bel da fare.
Decide di telefonare a Caia, conosciuta per caso qualche settimana fa, carina e anche con un'aria perbene.
- Pronto, ciao, sono Tizio, ti ricordi?
- Sì, ciao, bla bla bla, come stai?
- Bene, anzi di merda, bla bla bla, esci con me stasera?
- Mi dispiace, ho una riunione al Centro Aiuti all'Umanità, bla bla bla, bla bla bla, bla bla bla.
- Porcatroia! e domani?
- Domani sono a cena da mia madre, torna mio fratello dall'Iran, bla bla bla. Poi... cenare fuori... sai, io sono vegana e crudista... bla bla bla...
Tutto ciccia - per vedere Caia avrebbe forse dovuto essere un malato terminale, e telefonarle non lui ma un suo familiare, meglio se donna.
Si è fatto buio. Tizio ha qualche fantasia autodistruttiva che non prende sul serio. Comincia a masturbarsi, poi stop, la vergogna lo assale di nuovo. Cazzo sto facendo! Opta per un giro in macchina. Partenza rabbiosa e via. Ma dove? periferia? strade spaziose? campagna? No! le mille luci di Milano, un po' di traffico e in cerca di un bar per bere dell'alcol.
Immagina, parcheggia, trova, si siede, ordina, beve, riordina, ribeve, osserva. Tutti troppo giovani, sghignazzanti, gruppali, uguali, pettinature di plastica. Nessuno lo guarda. Riordina, ribeve più lentamente, poi basta. Via di nuovo. Traffico, semicentro, periferia, raccordo, autostrada, centocinquanta, centottanta, duecento all'ora, nessun incidente, per puro culo.
Come un automa, Tizio rientra a casa, fa le sue cosette e si mette a letto. Uno scorcio di pensiero felice: domani c'è la partita.

2. Tizia ha dovuto rinunciare a seguire il Centro Aiuti all'Umanità per un week end in trasferta, perché l'indomani, domenica, dovrà prima assistere un amico di famiglia malato terminale, poi cenare da sua madre festeggiando il ritorno del fratello dall'Iran. Ma la breve sospensione della sua militanza al Centro le dà la sensazione di interrompere il ritmo della sua vita. A quel ritmo non sa rinunciare, e il suo mondo, in sosta, crolla. Leggere? non c'è la calma giusta. Ascoltare della musica? praticamente non ne ha in casa. Scrivere quei pensieri? sarebbe la fine.
Illuminazione! telefona a Caio, conosciuto per caso qualche settimana fa, attore di teatro, colto, brillante, ricordo di bella conversazione.
- Pronto, ciao, sono Tizia, ti ricordi?
- Sì, ciao, bla bla bla, come stai?
Tizia gli parla immediatamente del Centro e gli propone di fare lì uno spettacolo con la sua compagnia. Ma ha la voce che si spezza continuamente, accenni di pianto, e Caio se ne accorge subito.
- Daaai! vengo a trovarti e poi usciamo.
- Gr...azie, volentieri! (la voce di Tizia non maschera più nulla).
Incontro sul pianerottolo di casa di Tizia. Caio è davanti a lei che ha gli occhi arrossati, la abbraccia, la carezza sulla schiena. Senza parole per un po'.
Parla lei per prima, vuole spiegarsi e ci rimpasta dentro la tiritera dello spettacolo al Centro.
Ma non funziona, riprende a piangere.
Caio la trascina dentro casa, sul divano, la fa sedere e le si siede accanto, aderentissimo, proteso verso di lei in tutti i modi. Altro che corpo scenico!
Nuovo silenzio, perché Caio tenta ripetutamente di baciare Tizia sulle labbra, anche di stenderla, e lei si agita continuamente per opporgli resistenza.
Caio smette di sua iniziativa, ma Tizia si sente soddisfatta come se fosse opera sua. Al punto di sentirsi persino un po' sollevata da quell'angoscia e di rilanciare l'idea dell'uscita.
Escono, passeggiano, parlano, cenano compatibilmente con le idiosincrasie di Tizia che è vegana e crudista. Tizia racconta di cose del suo Centro e Caio dei suoi spettacoli, e via via fatti sempre più minuti, soprattutto riguardanti terzi, cose lontane, terre lontane.
A fine serata, davanti al portone di Tizia, si salutano baciandosi sulle guance. Rito abbreviato.
Entrambi non contano di rivedersi.

Morale della favola: quando non si ha in mano se stessi, la distrazione da se stessi non deve interrompersi mai; pena, una specie di morte.

martedì 9 giugno 2009

Tra Italia dei Malori e Repubblica dei Pizzoccheri

Nulla sorprende del risultato di queste elezioni europee, il che lascerebbe davvero poco spazio a commenti profani come i soli di cui sono capace in materia di politica.
Ma qualcosa che viene dal cuore ho voglia di dirla lo stesso: che, se l'Europa va (ulteriormente) a destra, l'Italia si addentra (ulteriormente) nell'osteria. Il che significa liberalismo e liberismo "di risulta", qualche modesta punizione alle smargiassate del premier - che sarebbe splendido poter interpretare come minoritaria attenzione al "j'accuse" del Financial Times - e, in primo piano, tanta chiusura sociale, tanta diffidenza, tanto odio troppo simile a quello che un microcosmo "etnico" nutre nei confronti di altre etnie.
Multietnico, d'altronde, è sempre un paese borghese, capitalistico a tutti gli effetti e implicitamente destrorso: è il cosiddetto "Stato canaglia" che pensa in grande sulla pelle delle classi più deboli, ormai puntualmente fatte di allogeni. Ma l'Italia non è neppure questo, anzi non lo è affatto. Vorrebbe semplicemente fare questo senza pellacce nere o gialle tra i coglioni, senza lo straniero che sta già sfruttando. Infatti, la gente non si mette d'accordo, vorrebbe l'uovo e la gallina e non sa come, dal momento che anche fare le piccole canaglie richiede pensiero, senso di realtà, nozione della storia presente, in qualche modo propensioni dialettiche, paradossalmente.
Dunque, per adesso, il grido è "chiudiamo le porte", facendo finta di niente, tanto poi si vedrà. Tanto, l'omogeneità culturale è la prima garanzia di "sicurèssa". E la "sicurèssa" innanzi tutto, così si torna a casa in santa pace, si vedono in santa pace le partite di calcio, si guarda in santa pace la tv, insomma si fanno in santa pace tutte le cose che fanno la vita! Eh, cacchio!
In altri angoli della terra, sopravvivono repubbliche delle banane, in cui si tollerano dinastie di dittatori e sfruttamenti delle proprie risorse a solo vantaggio di un'élite di potenti o, magari, anche contrattati con qualche "Stato canaglia" occidentale. Cose davvero atroci, ma che l'Italia, stiamone certi, non conoscerà mai, perché le banane sono straniere, "etniche", che se ne vadano via! L'Italia sarà la Repubblica dei Pizzoccheri che non chiederà e non darà niente a nessuno, neppure alle confederate repubbliche dei Bìgoi, della Bagna Cauda, della Fugassa... dei Cannoli, e tanto meno alla Repubblica Fasciopariolina del Campidoglio, specialista in discriminazioni laziali. Ognuna provvederà da sola a se stessa, e tutto andrà alla grande - cioè alla piccola.
Unico dubbio: non è che, nell'edificare questa alternativa autarchica al male e al bene del mondo, gli imprenditori continueranno a sorvolare sulla "sicurèssa" dei lavoratori? Mica lasceranno morire i loro corregionali!
(A sinistra, intanto, facendo i puri e duri si sono lasciati morire uno ad uno).

UNA CONFERMA DIRETTA (postilla del 10/6/2009)

Soltanto qualche ora dopo la pubblicazione di questo post, ricevevo una mail con il seguente testo: "Gentile Paolo Vitolo, ho letto le Sue amare considerazioni sulle repubbliche (delle banane e dei pizzoccheri) che condivido. Tuttavia non generalizzerei: le banane sono banane e i pizzoccheri sono un'altra cosa. Non potrei dire diversamente essendo l'autore e l'editore di un libro storico sulla ricetta e sul piatto in questione".
Il senso? semplicissimo: touche pas aux pizoquéris! Nient'altro che questo.
Ma allora, altro che polemici i miei interventi! Sono realismo esasperato! quello che puntualmente diserta il giornalista, l'opinionista, il comico tv che si para il culo attaccando ogni piega della classe politica, ma mai il costume degli italiani. Eppure il nostro tumore, il nostro invasore è proprio quello, quella faciloneria, quel semplicismo, quel non-pensiero a tutti i costi.
Immagino l'inno nazionale delle Repubbliche Confederate della Secchia Rapita che recita: "Va' pensiero / non farti sentire mai più / qui noi non ti vogliamo..." (naturalmente con melodia e um-pa-pa verdiani).

mercoledì 6 maggio 2009

Il purodurismo, malattia maschile del sinistrismo

Alla comparsa di questo blog - e soltanto per aver aperto un blog, non per il suo contenuto - qualche amico ha reagito accusandomi di cedimento al "neo-esibizionismo".
La cosa non mi ha certo irritato, ma mi ha subito spinto a rendere pubblico il mio disprezzo delle posizioni di questo tipo, che sono forma di vita per i cosiddetti "puri e duri", figura eminentemente maschile e, purtroppo, collocata in prevalenza nell'area di quell'esile sinistra ancora degna di questa qualifica. Dunque, limitandoci a esaminare il caso specifico, che cosa esattamente difende chi condanna l'uso di un mezzo contemporaneo che non possiede la storia di mezzi passati, ma che offre in cambio una tanto maggiore agilità? Prima di tutto, almeno al livello più sano, la nobiltà di procedimenti di cui è implicita una sovresposizione della messa in opera rispetto al risultato, cosa che può dirsi di ogni azione rivoluzionaria storica. Anche Guy Debord, verso la metà degli anni Cinquanta, distribuiva gratuitamente il suo "Potlatch" attendendosi un riscontro nel pensiero della gente, e un riscontro che non poteva esattamente verificare. Oggi, però, questo modo di praticare il dissenso con la società rischia di annegare nell'icona, soffrendo di una scarsa realtà equivalente a quella della società che suscita il dissenso stesso. Oggi, per esempio, il mondo dell'anarchico che vive a contatto (quasi esclusivo) dei suoi consimili, è inevitabilmente un mondo settario, specializzato, che gira a vuoto. Da una parte, un mondo e uno stile omogenizzanti la parola, la scrittura, gli strumenti di diffusione impiegati etc.; dall'altra, un mondo inoffensivo per la sua autoghettizzazione. Altro che pensare ciascuno davvero con la propria testa e con il desiderio di diffondere il proprio pensiero "con ogni mezzo necessario"! Macché! Persino sull'anarchico grava la gratuità se una disciplina lo condiziona. E, a maggior ragione, se questa gli impedisce di interagire con la merda che ci troviamo intorno. Chi, avendo letto i testi che sono nel mio blog, ha disapprovato che fossero blog e non brochure militante mi ha suggerito la moralità e la specialità al posto della libera amoralità della convinzione individuale; mi ha indicato l'autonomia dell'atto di ripulirsi la coscienza (quale lo scrivere quei testi, consegnandoli a una diffusione per forza marginale) al posto dell'opportunità di inoltrare del pensiero diverso proprio nei circuiti della società che contestiamo. Ma questa opportunità, nuova, contemporanea, senza storia gloriosa e, per giunta, condivisa con gli attuali professionisti della sublimazione, è un'opportunità reale, un mezzo funzionante, consente di inquinare l'inquinamento, il che non mi sembra la stessa cosa che sfondare porticine spalancate. Certo, a compagni anarchici potrei comunicare il mio anarchismo adottrinale attraverso quella stampa off, ma si sa bene quanto non siano loro il problema. C'è giusto da incazzarsi perché a loro non si possono inviare mail o coordinate di blog, cioè per il puro-durismo che li rende inoffensivi, appunto. Mentre contro l'agire indefesso di chi non ha idee e fa come se ne avesse non ci si può permettere di essere inoffensivi, non si può opporre loro le vestigia di un sogno che non saprebbero riconoscere. Per questo, caro puro e duro dei miei coglioni, non mi convinci! Anzi, credo proprio che sei arrivato allo stesso capolinea dell'uomo dei palloni ferreriano, e non per colpa di un'epoca selvaggia che ti ha messo in minoranza, ma perché in minoranza ti sei messo da te, non accettando la dialettica che fa parte della stessa cultura che difendi. Perché ti chiudi di fronte a uno scenario, evidentemente, più problematico di quello vorresti sottointendere. Il tuo puro-durismo, l'ho già detto, ha una causa nobile, perché romantica e coscienziale. Ma come fai ad associarla alla fissità e alla rappresentazione? Del puro-durismo di chi si occupa solo di passato, di chi difende il vinile o porta al polso soltanto orologi automatici o fa cose simili non mi stupisco, ovviamente. E' fuga al maschile dalla realtà tout court. Ma il tuo, mon gauchiste, mi sembra contronatura quanto la donna di destra, il nero di destra, il sindacato di destra. A parte il fatto che la coerenza potrebbe essere davvero la virtù degli imbecilli (almeno quella che in un soggetto non si forma spontaneamente in funzione del suo desiderio), la tua coerenza, mon gauchiste, mi sembra ancora peggio: mi sembra spettacolo, qual è da sempre l'austerità dell'intellettuale. Siamo alla miseria di Franco Fortini che, traducendo Zazie nel métro, scriveva "blu cins", anziché "blue jeans", come per prendere le distanze da quel nefasto prodotto del consumismo stelle e strisce, o di qualche bottegoscurino che asseriva di non saper neppure pronunciare la parola "jazz", tanto che gli faceva torcere le budella quella musicaccia così desiderante. Ma intanto si è visto bene a che cosa tutto questo ha portato.

martedì 21 aprile 2009

Le vere ragioni dell'artista

Che fare quaggiù? Cosa sognare? Cosa costruire? Ditemelo dunque voi, che la vita diverte, voi che camminate verso uno scopo e vi tormentate per qualche cosa!
Non trovavo nulla che fosse degno di me; non mi trovavo adatto a nulla. Lavorare, sacrificare tutto a un’idea, a un’ambizione miserabile e triviale, avere un posto, un nome? E poi? A quale scopo? Del resto non mi interessava la gloria; anche la più clamorosa non mi avrebbe soddisfatto poiché non sarebbe stata all’unisono col mio cuore.

(da Novembre di Gustave Flaubert)

giovedì 9 aprile 2009

Italiani, povera gente

"Se i miserabili avessero la possibilità d'associare tra loro le immagini
della propria sventura, ne sarebbero in breve prostrati.
"
(Georges Bernanos)



Oggi, 2009, non c'è più alcun dubbio: la scena morettiana dell'assalto degli italiani al palazzo di giustizia che ha condannato il Caimano appartiene alla migliore fantapolitica - e compensa la sciattezza di tutto il resto del film. Perché oggi, 2009, gli italiani hanno imparato persino a lamentarsi di un male "dello schermo", pur di non prendersi responsabilità. Altro che crisi venuta dall'America (e che l'America si riprendesse, dice Berlusca)! Il male vero è un dramma fantapolitico di casa nostra, nato in casa nostra, anzi in soggiorno, dove "brilla la tivù". E' il dramma assurdo di un popolo che ha perso la facoltà di fare due più due, che non riconosce più l'evidenza, e che, nel frattempo, si accontenta di una vita strumentale. Che neppure coglie al volo qualche scheggia di informazione democratica che ancora, malgrado tutto, gli viene concessa, la quale parla proprio del suo sacrificio vivente.
No, niente da fare, la massa degli italiani non pensa più. Eppure, curiosamente, l'atto di scegliere lo compie. Sceglie la tutela attiva di quel sacrificio, di quei bassi stipendi, di quegli altissimi stipendi dei politici, di quegli altissimi costi dei servizi - tali, ovviamente, anche per le imprese. Sceglie la sperequazione tra le classi sociali, l'isolamento culturale, il razzismo strapaesano, l'ostracismo per papà Englaro, la sanguinarietà della polizia, la severità di facciata del ministro trafficone, la persuasività della ministra hostess (ignota sino al giorno prima della nomina), la rappresentanza del gaffeur (in cui non riconosce il comunicatore timido e sprovveduto che è fuori dal mondo del puro business).
Sì, d'accordo, quello che gli italiani hanno bocciato era cartapesta, e cartapesta è rimasto, mentre Berlusca, in fondo, il messaggio casualmente giusto l'aveva pur lanciato: non stiamo a menarcela! vita leggera! E' che per lui, l'imprenditore parvenu, il furbastro dalla facoltà di simbolizzare inesistente, questo significava semplicemente - com è avvenuto - ridurre la vita a un assoluto commerciale, cioè specializzare la soluzione del generale. Roba da soviet e da fascio alla stessa stregua, e che neppure la destra più becera immaginerebbe di realizzare in un paese dell'Occidente, popolato di individui. Ma gli italiani, evidentemente, da popolo di cui può approfittare ogni potere deresponsabilizzante, sia esso mamma che tutto perdona o papà che tutto dispone, proprio questo hanno scelto: anzi, scelto e riscelto. Nessuno ha temuto di diventare cittadino di un'Alphaville minore, contrapposta a un'Occidente di "paesi esterni" - come l'Alphaville godardiana. Nessuno ci ha pensato, perché il virus che attacca le sinapsi aveva già attecchito. Con una facoltà di propagazione nettamente inferiore a quella della radioattività, non riuscendo a valicare l'arco alpino, ma con una diffusione capillarissima e quasi indiscriminata dalla regione cisalpina alla Sicilia.
Che cosa, dunque, avrebbe fatto sì che questo virus s'impadronisse dell'italianità contemporanea fino a identificarvisi? O meglio, senza metafore, che cosa ha fatto sì che gli italiani sacrificassero le loro microstorie a quella omologazione nei modi di un popolo non secolarizzato e neppure borghese-occidentale? Una fragilità nuova o antica? Direi antichissima, e la definirei "scarsa realtà".
Più precisamente, si tratta di una particolare, parossistica disponibilità ad accogliere l'astrazione al posto del riscontro dei sensi. Una disponibilità ammaestrata che, almeno a partire dalla Controriforma, ha reso compatta - contro ogni culto della secchia rapita - l'intera "espressione geografica" italiana in nome del più ruffiano surrogato della metafisica, ovvero la chiesa cattolica apostolica romana: clamoroso strumento di potere e di persuasione, machiavellica panacea per i lestofanti e serbatoio di assistenza per i deboli.
I quali deboli, oggi sono per eccellenza gli italiani, alla stregua soltanto degli islamici. Tutti povera gente, che abbiano o meno quattrini. Tutti che tentano piccole, medie o grandi truffe pensando al bene della famiglia, o che, pensando al bene che dispensano loro la famiglia, il calcio, il ripulirsi la coscienza con qualche stronzata "tutti insieme", si rassegnano alla povertà.
Per il potere, è stato un gioco da ragazzi far desiderare a tutti loro le stesse cose, imbonirli con il concetto astratto della cosa desiderabile per tutti. Astratto come la meta di far soldi, se non è il diretto piacere soggettivo a beneficiarne.
D'altronde, nessun Tanzi, nessun Berlusconi, nessun Sindona, a suo tempo, ha mai riconosciuto l'inversione di priorità (tra cose della vita) suscitante il suo notevole impegno facinoroso. Così come nessun mafioso o camorrista riconosce quanto esente da autentico piacere sia la sua vita. Intanto, nei "paesi esterni" che fanno l'Occidente, di truffatori ce n'è tanti di meno, e di mafiosi e camorristi non ce n'è per nulla. Vorrà pure dir qualcosa.
Ma sì, i conti tornano alla perfezione. E c'è poco da rimpiangere l'Italia quasi prima in classifica nelle lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta, l'Italia in cui si agitava Pasolini e di cui ricordiamo tanto cinema nevralgico. In quella stessa Italia c'erano anche le Br, l'incarnazione eversiva più liberticida, più soggetticida, più antidesiderante che possa ricordare chi è ancora su questa terra. Persino il Sessantotto, in quell'Italia, non curava granché il soggetto della rivoluzione, né l'idea di una rivoluzione realmente ambientata oltre l'età del pane, non avendo avuto anime trotskiste, anarcoidi o situazioniste, ma soltanto un genericissimo motore marxista-leninista. E del Settantasette vogliamo parlare? Quanti erano veramente, tra i settantasettini, gli aggiornatori del desiderio? Quanti i veri convinti della politicità del personale, cioè del desiderio stesso? Potrebbe essere tutta un'epica bell'e buona.
Che fare, dunque, contro il male antico che fa ed è l'Italia? Non si può contare su una "organizzazione del pessimismo" (W. Benjamin), perché troppo pochi italiani si accorgono che la vita italiana è "pessima". Non si può contare su un momento in cui scatti il meccanismo dell'intolleranza e nasca la rivolta (l'homme revolté camusiano), perché gli italiani non si rivoltano mai, accettano di tutto se è salva la famiglia - che nessun potere italiota toccherebbe mai loro. Certamente, è molto importante simulare la fiducia in queste possibili energie, almeno in ambiti parziali: dai sindacati al giornalilsmo-verità, anche e soprattutto televisivo. Ma soltanto perché accettare con le mani in mano l'idea di un paese-razza dal destino irreversibile ci ripugna.
Nel frattempo, però, consideriamo che, a fronte di ogni presente, ogni passato è più o meno mostruoso, che il tempo in cui si sputa sulle libertà conquistate prima è comunque migliore di quel prima: soprattutto consideriamo che la storia più vera, la più affidabile è quella che si fa da sé, lungo la quale il desiderio e l'intolleranza crescono, demotivando sempre più le devozioni ai fantasmi e ai poteri abusanti.
Rispetto a questa storia, i cosiddetti passi indietro non sono che le illusioni dei semplici, facilonerie a fiato corto. Ed è proprio il virus di questa storia "naturale" che sconfiggerà quello dell'italietta.
Nulla di paradisiaco, in tal caso, ma almeno un paesaggio di ingiustizie, di contraddizioni e di crudeltà mondane. Cose preferibili, malgrado tutto, alle grosseries da parrocchia, o da secchia rapita, appunto, che opprimono l'individuo e il suo desiderio da distanze troppo ravvicinate.

mercoledì 8 aprile 2009

lunedì 23 marzo 2009

ARTE FALSA


CHE COS’E’ ARTEFALSA

1) Artefalsa è una menata di Paolo Vitolo, datata 2008 e conclusasi con l’impiego dei 20 fogli costituenti un album da disegno e il sensibile consumo degli strumenti adoperati (pennarello nero, pennarello rosso, evidenziatore giallo).
2) Esente da ogni autentica ispirazione poetica, Artefalsa non pretende altro scopo che addobbare simpaticamente una parete di casa, oltre che far arrotondare il reddito di chi l’ha prodotta (Paolino).
3) Nella produzione di Artefalsa si può osservare la presenza immancabile di figure umane, e si possono leggere metafore elementari su consuetudini di costume. Ma, in realtà, tutto quello che si vede è letteralmente capitato, come se i disegni si fossero fatti un po’ da soli. Perché Artefalsa non è soltanto esente da poesia, ma anche dal suo opposto, cioè la creatività.
4) I prezzi di Artefalsa, per il momento, variano dai 10 ai 20 euro, e sono stabiliti in base a quanto il singolo disegno sembri riuscito a chi lo ha fatto (il solito Paolino) e agli amici che lo hanno visto fresco sfornato.
5) Chi vedesse nel progetto Artefalsa un colpo di spillo sul pallone gonfiato dell’arte visiva, vedrebbe giusto, perché Artefalsa è proprio quello, e in più con la spocchia (di Paolino) di averla prodotta unicamente a tempo perso.

Postilla:
stati di disagio e/o di angoscia ancora presenti in Paolino al tempo della produzione di Artefalsa non sono certo leggibili in alcuno dei disegni, essendo quegli stati d’animo cose troppo importanti perché possa esprimerli il messaggio visivo – qui, del resto, programmaticamente assente proprio per coscienza di questo.

21.03.09: NASCE MINIMA A-MORALIA DI PAOLO VITOLO





Al lavoro con Vilma, Cristiano e Laura