martedì 5 febbraio 2013

Spu(n)ti di riflessione

Comincio da una conversazione di qualche tempo fa con una persona più anziana di me. Si era alla vigilia delle elezioni e si parlava di miseria del nostro centrosinistra. "Bersani - diceva il signore - è solo un provinciale grezzo e ignorante. A Roma non sarà mai andato all'Accademia di Francia; sarà giusto andato alla fontana di Trevi a gettare monetine". Con identica mentalità, Sgarbi dice di Grillo che "non sa chi sia Simone Martini". Ma che cosa c'entra questo tipo di sapere con le meraviglie della vita, quelle vere, di cui Bersani farebbe bene a occuparsi e Grillo sembra che comunque lo faccia? Niente, solita retorica! Non che il politico e il poeta siano "troppo per una sola persona": almeno Vaclav Havel la sua l'ha fatta. Piuttosto, che tra certi prodotti della cosiddetta cultura - la maggior parte - e un pensiero effettivo, utile al politico come a chicchessia, passa una distanza che è sempre la retorica a colmare; naturalmente sotto forma di stilizzazioni e forzature dello scibile. La sovrastima della cosiddetta cultura, soprattutto di quella "bellezza che non promette felicità" (solito Debord), nasce dal bisogno della borghesia storica di distinguersi dal "popolo" per motivi più logici di quelli della vecchia aristocrazia. Si era infatti servita di un artificio meritocratico: affermare la superiorità della propria condotta attraverso la capacità autocertificata superiore di apprezzare cose che non è affatto istintivo apprezzare; in pratica, apprezzare l'inarrivabile - per raffinatezza, complicatezza, ma anche semplice evanescenza, scarsa presa sui sensi - per ostentare inarrivabilità. Un artificio che, almeno all'origine, sarà senz'altro costato notevoli sforzi di alienazione agli interessati, ma che nessuno, nagli anni e nei secoli, ha mai avuto il coraggio di mettere in discussione, e con la conseguenza di (mal)educare la gente alla non distinzione fra istruzione e pensiero.
Per questo, almeno col senno di oggi, si può dire che il sapere intasato di simulacri produca soprattutto replicanti: genoflessi che non sanno di esserlo soltanto perché quel sapere è ufficialmente laico. Il loro meglio è un'infarinatura di gusto in qualche modo raffinato; il loro peggio, non capire che l'evento artistico multimediale con videoproiezioni di pincopallino, suoni di pincopallone, versi di pincopalloccio, anzi di Rimbaud, recitati da pincopalletta che ha una vooooce meraviglioooosa, è per forza una bufala - e il suo costo uno dei tanti sprechi da evitare.
Naturalmente, l'ignavia di Bersani è del tipo opposto, modello base. Ma parliamo invece di Grillo, che senza Simone Martini e forse anche senza "L'uomo in rivolta" di Camus (al quale attribuirei ben altro peso) ha dato voce all'intolleranza giusta, anzi l'ha sollecitata, e che semina anche fuori del nostro paese, suscita l'osservazione. Se tutto va bene, con Grillo si va oltre Grillo. La primavera italiana che ci serve. L'Italia laboratorio dell'Occidente mezzo secolo dopo piazza Statuto, ma questa volta per i cittadini, non per l'ideologia. Finalmente una rivoluzione senza molotov e finalmente una rivoluzione non borghese.
Infatti, l'altra anima è Mujica, il presidente di una periferia del mondo che, nei suoi discorsi, parla di "felicità", scomodando una categoria così più ampia della specialità della politica. Mujica parla di uscita dai meccanismi dell'economia capitalistica che di felicità non ne producono e quello che ci suggerisce è degno della più illuminata visione della vita: riconoscere e interpretare il meglio possibile il nostro desiderio impegnandoci di conseguenza, senza industriarsi oltre. Insomma, che questo lo dica un politico è un sintomo di cui approfittare, se è una società di soggetti quella che vogliamo; e che questo bagliore venga da liggiù è il sintomo di un mondo che sta fortunatamente cambiando.

Ma ora torniamo alla microscala dell'affare cultura e sapere, che resta un brutto affare se non si realizza che il sapere tradizionalmente inteso, quello che sarebbe "potere" secondo un vecchio proverbio, non è detto né che sia stato né che sia automaticamente pensiero. C'è una parte di sapere che ha fin troppe possibilità di non essere pensiero e perciò di nutrire potere fasullo. Potere ormai innocuo su larga scala e praticamente non più esercitato da alcun soggetto, almeno fuori dagli ambienti accademici, ma ancora subito per cattiva abitudine da quella piccola parte di società che sarebbe invece la più raffinata, la più sensibile. Il problema è sempre l'affidarsi a un sistema astratto, finito, altrui, di concetti e formulazioni anziché alla facoltà meravigliosa di speculare sull'esperienza, di cui si teme evidentemente - ma direi sprovvedutamente - la banalità. E qui, purtroppo, c'entra anche la filosofia.
L'esempio chiave: l'uomo di cultura filosofica che contesta proprio il valore della soggettività invocando la formula che siamo tutti "intrisi di mondo". Spinoziana o di chi altro sia tornato sul problema poi, che cosa ci dice di rispendibile questa formula? Di sicuro, che vegliamo tutti all'impiedi e dormiamo stesi; che mangiamo più o meno tutti in orari simili, con lievi differenze tra nord e sud del mondo e tra città e campagna; che desideriamo tutti un'accettabile appagamento affettivo e un'attività che ci procuri reddito; che abbastanza spesso ci facciamo influenzare da mode di gusto e di costume... tutto ozioso, se si vuole. Problematico è solo che seminiamo figli come bestie per pura consuetudine, e lo è proprio per la scarsa considerazione del soggetto che abbiamo. Ovvero, la formula resta non problematica per la vita finché non si chiama in causa un dato che la contraddica - la soggettività, categoria presunta invece irrilevante rispetto a un tutto. Ovvero, la formula è inerte per la conoscenza non specializzata, mentre è utile a una conoscenza specializzata, la quale ammette al suo interno artifici a scopo indagativo/interpretativo. Ovvero, la filosofia è utile come piattaforma di metodi indagativi e interpretativi, ma, se scambiata per maestra di vita, inganna la conoscenza e la coscienza individuali.
Prova ne è che la psicanalisi, la scienza umana per eccellenza, si serve di fenomenologia e di filosofia del dialogo per il suo metodo, ma alle sue ipotesi e alle sue conclusioni nessuna fonte filosofica collabora mai direttamente. Svolta una certa funzione interlocutoria, viene messa da parte. Evidentemente, non è utile alla conoscenza di se stessi - come non lo sono un Lacan, un James Hillman e chiunque abbia coltivato l'ambizione borghese di rendere "artistica" la propria personale postura psicanalitica.

Con questo voglio dire che la nascita della psicanalisi, ma soprattutto l'affermazione della sua "utilità", è come se avesse spinto l'autocrate filosofia verso la costola retorica delle due culture - cioè quella umanistica. Quanto meno l'ha spinta a concedersi di operare e predicare rispetto a un surrogato della vita psichica umana molto simile a quello che soddisfa l'occulto fine alienativo/sublimativo della cosiddetta cultura in genere. Pura coda di paglia quella di Deleuze e Guattari, che negli anni Settanta avevano teorizzato l'invenzione di un inconscio fittizio da parte della società degli psicanalisti. Bisognava depistare in tempo le coscienze da un'ipotesi ormai ineludibile: che la storia di tutta l'intellettualità alienata dalle finalità pratiche della società sia la storia delle forme più sofisticate di gestione della paura; una storia dell'arte di vincere al braccio di ferro con l'emozione.
Ora, la meta di una volontà che sovrasti l'emozione, che faccia dei sentimenti solo passioni vertiginose e delle minute angosce esistenziali dubbi apocalittici con i quali si dorme lo stesso, con amor proprio sempre in ordine, potrebbe interessare a tutti; al punto che il bello della responsabilità individuale potrebbe anche andarsene al diavolo. Resta solo da verificare quale livello di piacere sopravviva a questo tutto freddamente logico, stilizzato, elegante, inodore; e anche quale stato dell'essere effettivamente adatto a vivere il piacere, il che significa soprattutto supporlo ripetibile.

Ricordo di un amico che non frequento più da un bel po'. Proprio un intellettuale parigino.
Una sera si era a casa sua e, tra gli invitati, c'era un personaggio noto. Non parlava, se ne stava prevalentemente a testa bassa, a volte si sfregava le mani. Io non osavo chiedere a nessuno che cosa avesse, capendolo bene. Poi, a un certo punto, il mio amico fa "scusa... stasera devo curare lui", al che io gli chiedo, domanda retorica, se è depresso, e l'amico mi risponde, tradendo un certo disagio, che quel personaggio aveva avuto "forti delusioni dal Partito Socialista".
Dunque, un personaggio noto che frequenta intellettuali, ma che non è esattamente un intellettuale, mostra sintomi tipici della depressione, di cui sta presumibilmente soffrendo, non possedendo quegli strumenti superiori di controllo della realtà; al tempo stesso, l'amico intellettuale, che quel male lo ignora, non lo vede, non lo riconosce, resta spiazzato, quasi sgomento, al solo sentirne il nome.
E' un fatto che mi fa pensare alla retorica del suicidio dell'intellettuale. Dico retorica perché l'opinione comune è che si tratti di un gran gesto, un suicidio cosiddetto "altruistico" (Durkheim), di segno opposto a quello del povero diavolo rimasto senza affetti e/o senza un soldo - e che non è neppure un imprenditore disperato dell'italietta montiana.
La mia opinione, in ogni caso, ribalta la scena: gran gesto quello dell'uomo comune che impugna la sorte di non-piacere che per qualche motivo gli è toccata e gesto perdente tout court quello dell'intellettuale, colto alla sprovvista dalla percezione fatale di un'esistenza mancata per baro, nascosta a se stesso attraverso artifici di mestiere. A spanne, potrebbero non essere così soltanto i suicidi di Pavese, di Stig Dagerman e forse di Guy Debord - tra quelli che mi vengono in mente.
Naturalmente, la stragrande maggioranza degli intellettuali non muore suicida; vive e predica fino alla fine bypassando la chimica della psiche umana; chi da melanconico con il solito alibi che il mondo va così, chi da fiducioso che la maschera della sprezzatura, con conseguente avarizia di sorrisi e cordialità, procuri una forma di vita accettabile e chi da finto estroverso che parla, parla e parla, senza accorgersi dell'altro. Tutti, in ogni caso, inclini a un senso dell'altro carentissimo. Tutti, dunque, soggetti cui manca un pezzo, e per un motivo ben chiaro: che sono soggetti "specializzati", mutilati individualmente dalla stessa attitudine alla specialità che disequilibra la politica e l'economia, e al pari di un prete, di un militare di carriera, di un mafioso...

La miseria della specialità, in generale, deriva dal suo costituirsi di energie concentrate in un solo ambito, a sua volta utile alla vita soltanto per una prestazione interlocutoria o perfettamente fine a sé stesso. L'economia, per esempio, è potenzialmente utile alla vita, ma non è sua funzione darci lezioni di vita, essendo la vita un'entità globale, non specializzata. E' parte della vita, ma non l'entità che la sovraordina - funzione che già il bolscevismo le aveva assegnato, causando il fallimento del socialismo reale, e che oggi sta assegnandole il capitalismo, con le conseguenze che sappiamo.
Quanto alla produzione di lavoro intellettuale, invece, la sua utilità è inversamente proporzionale al suo grado di specialità, che si tratti di produzione di pensiero o di cosiddetta arte.
L'idea dell'arte "non utile" per definizione è infatti l'assunto di base, squisitamente sovrastrutturale, di quello storico pensiero borghese, il suo credo dogmatico. Già Heidegger, cerchiobottista qual era, una funzione gliel'aveva assegnata: "abitare poeticamente il mondo". Ma siamo al solito parto elegante e laconico da società-del-discorso. Perché la possibilità che l'arte ci dia qualcosa, espletando dunque una funzione, esiste eccome, dal momento che può sia "piacerci" che "illuminarci". L'importante è che sia l'artista a sentirsi dentro questo desiderio, anziché quello di sfruttare al massimo la retorica del suo ruolo, molto più comune e che in una sola mossa lo fa competitore esibizionista e lo specializza. Insomma, ci siamo mai chiesti quanti romanzi potrebbero essere tutt'al più racconti lunghi - problema di cui ho discusso nel mio precedente post ("per un'estetica veramente anarchica") - e quanti trattati filosofici non più che lunghi articoli? Sembra che sia quasi una regola generale! Ed è chiaro che qui si passi da un'utilità all'altra, che è quella esclusiva dell'autore. Cioè, di "non utilità" non se ne parla.
Siamo noi che dobbiamo finalmente rendercene conto: anche per accedere senza dimenticarci di noi alle eventuali parti attive di questo sapere e usarle da materia prima, non elettroshock. Intanto, stiamo anche attenti alla retorica del genio, che retorica è, se si pensa all'artista. Dopo le epoche in cui tutto era ancora da fare e da pensare, è meglio dare del genio a Freud, a Gandhi, non a un Joyce o a un Duchamp o a un Cage. Nel girello della specialità, di cose geniali se ne fanno come i bambini nel loro, con la differenza che l'illimitato principio del piacere dell'artista taglia frequenze anche a sensi e sentimenti. Tutto gira su se stesso. Altro che genialità!

Un giorno, un cliente della mia libreria mi aveva sentito affermare che il miglior anarchico è quello che non sa di esserlo. Subito mi chiese a chi alludessi: si aspettava un po' di nomi di illustri personaggi. Che ve ne pare?