venerdì 4 settembre 2009

Riprendiamoci tutto, anche quello che non abbiamo mai avuto!

"La bellezza, quando non è una promessa di felicità, deve essere distrutta"
GUY DEBORD

Da quella minchiata di film che era "Non ci resta che piangere" (diretto, si fa per dire, da Troisi e Benigni nel 1984) c'è da recuperare un concetto che stimo al punto di essermene servito in qualcuno di questi post: la mostruosità del passato rispetto al presente. Ovviamente, un concetto non valido per ogni presente che sia guerra, dittatura, recrudescenza religiosa, post-catastrofe naturale, cose di questo tipo, ma che, per il resto, dovrebbe non fare una piega, se si considera il perfezionamento naturale di due componenti importantissime della nostra vita, quali la libertà da schemi culturali e la comodità.
Grazie alla prima, e nonostante la resistenza tenacissima di chi la teme, oggi ci si sente meno reietti se non si mette su famiglia, se si è omosessuali, se si convive con chi non si ha né rapporto amoroso né legami di sangue, se si vive senza coltivare relazioni, se si fa un lavoro singolare, se si amano cose singolari, se si ama in un modo singolare, se si svelano proprie fragilità interiori, persino da maschietti. La seconda invece, per nulla osteggiata, ci ha soprattutto consentito di snellire tante operazioni propizie al lavoro o alla vita quotidiana che non producono né piacere né pensiero, il che non è poco.
Questo, anche se nel modo più becero, i due comici lo avevano detto. Avevano anzi scelto di rappresentare il mostruoso di un'epoca magnificatissima come il proto-rinascimento italiano, con in primo piano la sua archetipicità civile, la sua violenza. E si erano spinti a smitizzare di quell'epoca anche l'intelletto, il genio, con quel Leonardo macchietta, un po' lento rispetto ai due malcapitati del nostro tempo.
Peccato soltanto che si sia trattato di pura caciaroneria, di paccate sulla spalla. Perché proprio allora, negli anni Ottanta, quando quelle libertà cominciavano a svettare dalle nebbie dell'ideologia, e quelle comodità a fare capolino, avrebbe dovuto prenderne atto per prima la società della cosiddetta cultura, dal produttore al consumatore, e non certo per assecondare pedissequamente, come in parte ha fatto, l'ondata della grande reazione all'impegno, ma per disfarsi finalmente dell'attitudine specialitaria e autoreferenziale che la separa dalla vita ancora oggi, dopo che certo pensiero "spregiudicato" (Stirner, Nietzsche, Paul Lafargue) ha partorito postumi e postumi (situazionismo, antipsichiatria, arte nera, cyber etc.).
Intendendo per cosiddetta cultura la creazione, passata e presente, di prodotti e pensiero non vincolati all'utile, si deve dire che questo bene ci ha assistiti per generazioni, contribuendo a sollevare la qualità del nostro essere da una vita in cui la scarsa libertà aggrediva il desiderio e la scarsa comodità il tempo. Con la penale, però, che lo stesso pensiero sommario della vita comune, soggetticida per definizione, ne condizionava lo statuto. Non dimentichiamo che i borghesi ottocenteschi si sorbivano concerti sinfonici protratti da metà pomeriggio a notte fonda, che Freud, per leggittimare la sua sperimentalissima disciplina, infarciva di mitologia greca i suoi scritti, né che tanti giovani degli anni Sessanta e Settanta si costringevano a leggere tutto Marx, tutto Lenin, tutto Gramsci.
Ma oggi, proprio se ci sentiamo addosso una coscienza di veri soggetti, che ce ne facciamo di una cosiddetta cultura che, prevalentemente, ci alienerebbe? Che, per usarla, dobbiamo comportarci come chi accende un cero in chiesa? Dovremmo persino prendercela con Debord (di cui tanto ci serviamo) per aver scritto "La società dello spettacolo" producendo lui stesso uno spettacolo di "pédanterie parisienne", e di certo dobbiamo incazzarci con chi oggi cede a quel ricatto, chi suscita o predica l'accensione di quel cero. Riteniamolo guastatore del nostro tempo insieme alla tivù, agli eventi, alle discipline della potenzialità, al neo-razzismo, al neo-provincialismo, all'omofobia... Perché guastatrice è la sua ignavia, essendo ignavia l'incapacità di gestire un pensiero indipendente dalle deontologie settarie dell'intellettualismo. E' un'ennesima declinazione del multiforme bisogno di appartenenza, e con l'aggravante che consegnare il pensiero al monopolio dell'intellettualismo significa proteggerne pubblicamente uno stato di specialità separata dal sentire quotidiano.
Il danno riguarda soprattutto le produzioni artistiche che più godrebbero della facoltà di "abitare poeticamente il mondo", cioè il cinema, la musica e la letteratura - l'arte visiva (decisamente), la poesia (con qualche eccezione) e il teatro (malgrado tutto) hanno in merito possibilità costituzionalmente assai più ridotte.

Il cinema, il medium caldo per eccellenza (McLuhan) che contiene immagine, parola, vicenda, personaggi, pensiero sottointeso o enunciato, è naturalmente in cima a questa classifica. Ma proprio per questo è il luogo in cui il puro-durismo intellettuale, ovviamente in minoranza, più s'incarognisce. E non per far distinguere un cinema (d'autore) che è visione dello psicologico o del sociale o del politico da uno (di genere o no) che sacrifica ogni profondità allo spettacolo affabulatore, ma per difendere lo statuto artistico del cinema in sé e in senso disciplinare, dimenticando del tutto che la vera ricchezza del cinema dipende molto dal suo essere arte del "cosa", e forse un po' meno dall'esserlo del "come".
Ora, che il cineasta lavori a un rapporto stretto tra ciò che vuole dire e il linguaggio filmico, e che per questo talvolta lo sovraesponga, mi sembra non soltanto un sano diritto dell'arte, ma anche una pratica che aderisce a un suo auspicato fine funzionale. Come si può non apprezzare che Hitchcock abbia girato "La finestra sul cortile" facendo sì che lo spettatore vedesse esattamente come il protagonista? O che Polanski, ne "Il coltello nell'acqua", abbia girato le claustrofobiche sequenze del trio in barca dalla barca stessa? Del resto, lo spartanissimo Bresson girava spesso tante volte una stessa scena, se non una stessa sequenza, per ottenere la significanza desiderata - e sembra sia nato così il raddoppio della scivolata suicida di Mouchette, non narrato da Bernanos. Ma quanto toccano i film di Bresson!
Sterilissimo, invece, l'atteggiamento del cineasta (oggi, fortunatamente, in via di estinzione) il cui scopo è il cinema stesso, e addirittura depauperante quello del cinéphile ortodosso, il timorato dei Cahiers, il quale, pur non ammettendolo mai, sottostima il valore della dialettica tra arte e vita, per riproporre l'arte da contemplare. Tipica, infatti, è la sua difesa del film in lingua originale con sottotitoli, e altrettanto il suo solito alibi (invocato con un pizzico di coscienza sporca) di poter ascoltare le voci e le intonazioni originali degli attori. Ma quali voci e quali intonazioni! (sempre ammesso che il film sia in presa diretta) Qui si fa il verso alla pornografia: si vuole scambiare un tutto vitalmente imperfetto (il film doppiato nella lingua in cui pensa e sente chi lo guarda, con incidentali alterazioni di tono e/o di testo) per un' insieme "non vivibile" di parti connaturatamente perfette (recitazioni originali dai contenuti poco o per nulla comprensibili e immagini da cui ci si deve continuamente distogliere per leggere i sottotitoli).
Ovvero, il paradosso è servito: il cinema che ci parlerebbe non può essere vissuto, ma soltanto visto, perché è arte e l'arte non va che contemplata. La funzione del vivere quel medium caldo (contenente immagine, parola e bla bla bla) viene evidentemente delegata al cinema di evasione e alla tivù. E questo, mandando in pensione Brecht, Gramsci, persino Pasolini, i quali di piacere dell'uso dell'arte non hanno certo mai parlato, perché i tempi non erano maturi, appunto, ma di funzione dell'arte nella società altro che!
Non è un caso, d'altronde, che proprio Pasolini fosse tra i particolarmente schierati per il doppiaggio, accanto a Bunuel, Fellini, Bergman, Truffaut, Ferreri..., nè che tra i particolarmente contrari si ritrovino Godard, Straub, Garrel, Wenders... C'è da rifletterci!

Passiamo ora alla musica, la più psichica delle arti, la più importuna delle arti (Kant), l'arte connaturatamente romantica (Schumann).
Ebbene, quest'anima della musica indipendente dall'artistico - come lo è il sentimento dall'intelletto - è da secoli quella contro cui l'idealità artistica del musicista lotta per avere la meglio, e il più delle volte riuscendoci: da Bach che la sublimava nella codificazione delle forme a Cage che la liquidava, un po' ingenuamente, come roba passata. Questo, al punto che ci si chiede quanto la musica più comunemente considerata "d'autore" effettivamente ci parli.
Certo, la musica che altrtettanto comunemente si dice "popolare" ha grossi limiti: essenzialmente una musicalità palese ma elementare, dovuta alla necessità, nella maggior parte dei casi, di supportare un testo, di "cattiva coscienza" o presunto poetico che sia. Mentre l'ascolto emotivo, soprattutto se dipendente da un'effettiva domanda di musica e non da associazioni ad altro, richiederebbe un musicale ricco, capace per propria ricchezza di trasmettere emozioni. Il fatto è pur sempre che la musica colta, per definizione la più ricca, non ha mai smesso di fare i conti con quello statuto di classicità severa, altomimetica e intimidatoria, al quale ha richiamato anche l'espressione di emozioni all'origine autenticissime (da Beethoven al romantici stessi), fino a diventare, nel corso del Novecento, autoreferenzialità pura, e con il placet dell'elitarissimo consumatore, cui neppure più si addice questa qualifica, dal momento che la sua domanda non è più di musica, cioè psichica, strutturale, ma di cultura, cioè mentale, sovrastrutturale.
Ricordo, in merito a questo, una grossolana affermazione di Paolo Castaldi alla trasmissione tv di Berio "C'è musica e musica". Aveva detto che "...la differenza tra la musica senza aggettivi - intendendo naturalmente quella colta - e le altre musiche è che la prima è creata secondo il gusto del compositore, le altre secondo il gusto del pubblico". Grossolana per la grossolanità dello scambio tra l'ampiezza umanistica del concetto di gusto e il suo minuscolo spicchio di operatività nell'ortodossia disciplinare. Ovvero, che cos'è il gusto in opere come "4,33" di Cage o gli stessi collage castaldiani? E che cosa sarebbe un gusto-del-pubblico in cui riconoscere da Celentano a Coltrane? Siamo al volghetto aristofaniano che prendeva Socrate per sofista!
Ma adesso arriva il bello: lo stesso Berio si era - evidentemente - preoccupato che per tutte le puntate della sua trasmissione non fosse mai pronunciata la parola jazz, come se la cosa non esistesse. E giustamente, dal suo punto di vista, perché è proprio dal jazz che la sua riserva di allettamento linguistico doveva difendersi: dalla vera mina vagante della musica, alla quale appartengono insieme la romanticità e l'idealità autoriale, la centralità del musicale e un'esclusiva libertà-di-essere-liberi, infinitamente più tale di quella obbligata e ingessata del musicista di ricerca.
Forse nessuna musica sa parlarci quanto il jazz, almeno quello che si è fatto da Lester Young in poi, tolti i Chet Baker, i Keith Jarrett, gli italiani "bravi" etc. Perché nessuna musica è così integralmente psichica, così autenticamente interprete di quell'anima che la musica avrebbe al suo centro. Agli ultimi posti (immaginandoli come i vertici inferiori di una Y capovolta) piazzerei di certo il solito Cage - con suoi derivati - e le canzoni di Sanremo, in un mezzo fluttuante (dove la Y si biforca) il rock, ladro di emozioni musicali e no di ogni tipo, mentre un bel secondo posto, ahinoi, non ci resta che concederlo a pagine classiche, e per giunta passate, riservandoci però la facoltà di distinguere quelle che ci parlano da quelle, tanto più numerose, che sono solo compostezza, compassatezza, retorica... Almeno con l'arte psichica, cerchiamo di non fare i servi!

Per svariati motivi, invece, la facoltà di non magnificare in blocco i prodotti della cosiddetta cultura è abbastanza comune in ambito letterario. Non soltanto il lettore senza pretese dice che Burroughs è illegibile (perché gli fa perdere il filo), ma anche il lettore forte, scafato e sapiente, che semmai lo giudica inutilmente pirotecnico. E questo stesso lettore si consente magari di amare Gadda ridendo di Manganelli, di leggittimare le paranoie di Handke e non quelle di Bernhard, di sentire lo sperimentalismo di Butor e chiedersi perché mai Robbe-Grillet abbia fatto lo scrittore. Del resto, già Nabokov dichiarava di amare tanto l'"Ulisse" e di disistimare del tutto il "Finnegan's Wake".
In letteratura, infatti, il problema si presenta ribaltato rispetto sia al cinema che alla musica. Prima di tutto, nel senso che chi legge rivendica sempre, a sua misura, un diritto al riscontro di quell'atto comunque impegnativo. Ma anche in un altro senso: che gli scrittori, da un bel po' di tempo a questa parte, tendono a curare sempre meno la tridimensionalità dei personaggi e, semmai, sempre più una qualsiasi strategia di persuasione: più di tutto, trattare di soggetti corali e/o di "fatti inauditi", non importa se veri o no. E qui, c'è poco da fare, anche una letteratura sedicente alta e come tale riconosciuta diventa puro intrattenimento, passatempo che non scalfisce. Perché pastrugnare con i grandi fatti del male, quei misfatti che è un eccezione commettere, non è mai la stessa cosa che con una vicenda che, proprio per assenza di inaudito, potrebbe essere la propria. Si tratta ancora una volta di scegliere se essere spettatori o protagonisti, con la differenza che qui lo spettatore non è un timorato della cultura, ma un timoroso della sua esistenza al quale la società della letteratura offre il fianco.
In compenso, non si scrivono più finnegans-wake(s). No, in letteratura il monumento autoreferenziale non tira più, neppure in Francia. E questo, in sé, è già un buon segno di progresso. Ma era proprio necessario che quell'acqua sporca fosse buttata via con dentro il solito bambino? Cioè, che la letteratura sacrificasse davvero a un gusto del pubblico, questa volta effettivo, il suo male e il suo bene insieme? Fatto sta che le cose sembra siano andate proprio così: probabilmente per un sommario, pedestre timore che la carta stampata debba adeguarsi a un'epoca così prodiga di distrazioni.

Dunque, di fronte a una vita "migliorata" perché mediamente liberata di alcune mostruosità, scomodità e fonti di scarsa realtà, la cosiddetta cultura si sarebbe comportata mediamente male, non migliorando o addirittura peggiorando, per un verso o per un altro: chi la fa sarcofago e chi la fa escort, con la conseguenza media di farla perdere di vista come risorsa per la nostra felicità.
Perciò, da aspiranti felici, riprendiamocela! Ma migliorandola noi, se non sa farlo da sé, a partire da cosa usarne e come. E facendoci un baffo di tutta quella nata da sé stessa, che giustificatamente sentiamo distante da noi, se non penitenziale. Ricordando, invece, che chi produce cultura, come pensiero o come arte, non può avere altro movente onesto che rendere pubbliche le sue convinzioni, il che, in una società progredita, dovrebbe significare renderle utili, "per tutti e per nessuno", come diceva Nietzsche.
E' il punto in cui il discorso può diventare aleatorio, perché l'utilità della materia extra-utile si verifica soltanto quando almeno uno dei suoi tratti parla alla nostra esistenza. E sappiamo bene di non essere fatti in serie. A me, per esempio, sono utili Nietzsche, Freud, Marcuse, Lefebvre, Debord, Vaneigem e nessun filosofo tout court, Bunuel e non Orson Welles, Coltrane e non Stockhausen, Schnitzler e non Quéneau - e tutti con provvidenziali tagli di mio comodo. Ma che cosa ne so di quello che è utile a chi è altro da me?
Una sola cosa posso dire: che questo uso - o piacere dell'uso - è l'opposto del culto, e perciò l'antidoto esistenziale alla divinizzazione del soggetto usato, il quale non è comunque una divinità, non esistendone. Beethoven e Leopardi, per esempio, sono eventualmente "grandi" per aver fatto mondana la sapienza del depresso cronico, ed è soltanto per becera pruderie della cosiddetta cultura che quella causa incandescente ci viene tuttora contrabbandata per altre più astratte e arbitrarie, tipo coscienza-della-caducità-della-vita o simili arie fritte. Mentre "grande" non lo è mai l'artista che osa semplicemente per assenza o rimozione del sentimento. Il suo movente è ermafrodito e le sue creazioni inutilizzabili fuori della specialità.
E noi, smettiamola di ammirare qualcosa soltanto perché è "dell'altro mondo"!
Detto questo, e non volendo dilungarmi oltre su un blog, invito (con scarse speranze) il timorato della cultura a riflettere sulle sue posizioni e (più ottimisticamente) l'intimorito dalla cultura a considerare quel baffo che può farsi di tutta la cultura che gli appare lontana e mettersi sulle tracce di film, musiche, letture che gli parlino. Perché qui c'è da cercare di vivere bene, e le stronzate abbiamo visto che non ci bastano. C'è da diventare tutti soggetti DOC, tutti padroni: non di altri, s'intende.

(Elaborazioni digitali di Cristiano Mattia Ricci)