mercoledì 23 giugno 2010

Curare le minoranze luminose

A Gian Luigi Benni, con me naturopata del desiderio


La medicina è una strana attrezzatura dell'umanità. Dovrebbe occuparsi incondizionatamente della salute della gente, ma seleziona con puntiglio i casi in cui farlo. Altrimenti, è fondamentalmente negligente, burocratica, persino tirannica.
Gli eletti sono ovviamente i normali, talvolta i potenti, i quali hanno mali normali, anche se talvolta potenti, e i condannati i disallineati, dai mali imprendibili, spesso cronici, che sembrano fatti apposta per chi non sa fare della sua vita un mero prodotto della società.
In passato, anche recente, il disallineato era accettato dalla società quando produceva arte o pensiero: la sua diversità gli era concessa come di minor peso rispetto alla sua opera. Ci era voluta giusto l'ottusità del vecchio PCI per mettere qualche bastone fra le ruote a Pasolini - che i Moravia, i Fortini, i Ferretti comunque difendevano a spada tratta. Ma oggi la situazione è soltanto più bizzarra: l'artista o intellettuale viene accettato nella sua eventuale diversità a patto che essa contribuisca a un'attrazione mediatica, mentre il disallineato comune, quello che non ha nulla di sé da vendere, viene in qualche modo perseguitato a fine di assistenza. E non è certo il potere, cioè il vero mandante, a occuparsene, ma la società stessa: tutta quell'ampissima parte di società che, per propria miseria, ne ha metabolizzato il messaggio e, dalla stessa miseria, lo riproduce capillarmente; cosa di cui un paese catto-casermale come l'Italia è naturalmente specialista.
Il risultato è un diffuso atteggiamento di (non)pensiero che potremmo definire "correzionismo", accolto dalla medicina ufficiale e con ancora più rigore da quelle alternative, ma soprattutto perno della grande fioritura di discipline della potenzialità (PNL, Counceling etc.), il quale interpreta nel più cieco automatismo la volontà del potere di possederci tutti, controllarci tutti, correggere in tutti noi ciò che possa compromettere la nostra "funzionalità", dall'alimentazione al costume e al comportamento. Tutti trasformati da soggetti a corpi e appagati in tutto dall'avere un corpo pronto a tutto. Non hai i riflessi pronti? conosco un centro dove bla bla bla / Soffri perché non puoi fumare? c'è un metodo bla bla bla / Ti senti spesso stanco? vai alla palestra bla bla bla... Un onnipresente ricatto morale a danno di chi sarebbe "non a norma".
La medicina ufficiale, diversamente dalla chirurgia (che l'anno scorso ha rimpupazzato il muso al premier in tre giorni), in Italia è parecchio arretrata, forse più imbrigliata che altrove nel suo costituzionale approccio segmentario e perciò adattissima a farsi interprete di questo atteggiamento. La sua capacità di studiare e curare mali un po' fumosi, un po' subdoli, perché legati a disagi individuali globali, è praticamente nulla. Per non dire di quella di rispettare la dignità e il desiderio di chi, per sua disgrazia, li ha. I soliti "smetta di bere!", "smetta di fumare!", "metta il lucchetto al frigorifero!", quello che l'ipocondriaco fa da sé, senza bisogno di consultare il medico. E la cosa parte addirittura dalle case farmaceutiche.
Per esempio, gli psicofarmaci (che è già uno sballo che siano mutuabili) e i sonniferi (che invece, non si sa perché, non lo sono affatto) vengono dichiarati entrambi incompatibili con l'alcool: e, si badi bene, l'alcool in genere, non l'abuso di alcool. Cioè, chi ha disagi tali da dover fare uso di questi o quelli, i suoi disagi deve sentirseli addosso in ogni momento della sua esistenza: non può valorizzarne alcuno con un po' di leggerezza; stare in riga deve diventare il senso della sua vita. Ora, vera o falsa o dichiarata per eccesso di zelo che sia questa incompatibilità, è qualcosa di cui la medicina - qui nei panni della farmacologia - non sembra proprio aver voglia di occuparsi. Perché mai sforzarsi di fare meglio quando si ha già la piccola gioia di recuperare alla società il disallineato mortificandolo "quanto merita"? Perché mai rinunciare al valvassinaggio di un potere rassicurante su chi non ha potere neppure su se stesso? L'impresa non vale proprio la spesa!
Quel "fare meglio" sarebbe invece l'ambizione delle medicine alternative, le quali non godono dei privilegi di quella ufficiale e si piccherebbero di studiare il soggetto nella sua totalità: in tal caso, lavorando su ipotesi reali, non sommarie, non astratte, del suo benessere. Un approccio così inoppugnabile che ci si domanda come gli sopravviva quello robotico della medicina ufficiale. Eppure, di fatto, è proprio raro che un medico o terapeuta alternativo, di qualsiasi sponda sia, guardi davvero al soggetto nella sua totalità, che pertanto studi il suo equilibrio in funzione del suo desiderio. Spesso, anzi, glielo massacra con una cortina di intimidazioni da terapia come forma di vita; roba ben più opprimente dell'insieme di prescrizioni slegate della medicina ufficiale, e che ancora più istigatrice di ipocondria.
La miseria interna alle medicine alternative infatti esiste, perché a popolarle non sono che miserabili apostoli di una fede: oltretutto in un'entità per nulla etica, qual è la natura. Che la natura si manifesti attraverso catastrofi che si abbattono puntualmente sui territori più poveri del mondo o malattie tanto più lancinanti quanto più toccano a persone sensibili - quasi da credere che un dio, sadicissimo, esista - è cosa che non li tocca. La natura è perfezione assoluta e noi, se vogliamo cavarcela, non possiamo che piegarci alle sue leggi! Sì, certo, la natura possiede una sua filosofia e tante risorse di cui giovarci; in questo senso è anche da tutelare. Ma il principio dovrebbe essere quello di assoggettarla, sfruttarla, saccheggiarla, perché anche il suo "buono" esiste indipendentemente da noi, e indifferente a noi è la sua stessa filosofia, se ci coinvolge soltanto per proteggerci da forti e trascurarci o torturarci da deboli.
Qualcuno potrebbe dire che la pensava così Leopardi perché la natura lo aveva fatto brutto, fisicamente indesiderabile. Ma allora come la mettiamo con Baudelaire o Nietzsche, che brutti non erano? Sade stesso, quando contrapponeva alla castigatezza del costume sociale un'entità che chiamava "natura", è molto chiaro che alludesse a qualcosa da chiamarsi piuttosto "naturalità", e da intendersi come insieme di pulsioni soggettivamente naturali. Prima di tutto, infatti, parlava di pulsioni sessuali extra-animali, che sarebbero "contro natura", eppure naturalissime per il nostro desiderio. Basta buttar l'occhio su una qualsiasi pagina de "La filosofia nel boudoir" per accorgersene. Sade aveva anzi individuato antidoti preziosissimi al declino del desiderio sessuale che proprio la natura ci riserva a una certa età. Il passaggio da compiere è scollare il suo messaggio dalla provocazione, rinterpretarlo per la nostra vita, per quello che noi siamo e per il tipo di intimità che richiediamo; per il desiderio sessuale, erotico e anche affettivo di "mescolarci" all'altro, da etero o omosessuali - osservando che un'altra manifestazione fascista della natura è l'AIDS.
Ma per riconoscere questo bisogna essere disponibili a una "conoscenza spregiudicata" (Nietzsche): l'opposto del pensiero dottrinale, per forza sommario, che l'omeopata o il naturopata o chi di simile mette in opera nella sua fierezza di predicare un modello di vita, e anche di somministrare farmaci scomodi che ricordano il male tutto il giorno (goccette o granuletti da assumere a distanza dai pasti). Il suo concetto di vita è più o meno da pro-vita.
Poi, come se tutto questo non bastasse, c'è anche che le due medicine, ufficiale e alternativa, si ostracizzano tra loro: la prima, per la seconda, avvelena; la seconda, per la prima, è aria fritta. Altro che operare per far stare bene la gente! Sembra che la cosa importante sia soltanto non mollare l'osso, ciascuno nella sua nicchia a esercitare il suo piccolo potere: supponendo tutti schiavi abbrutiti o prostrate novizie. Che fa chi onestamente non si sente né l'uno e né l'altra perché è più "luminoso", e perciò più geloso della sua "naturalità"? Non gli resta che fare da sé, coltivare le sue forze: contrattare, contrattare, contrattare e usare molto, molto, molto pensiero, perché la convinzione partorisca, purtroppo, l'arroganza (fammi star bene così come sono, senò non vali un cazzo!) prima che sia del tutto tramortita.
Fortunatamente, queste cose le capiscono ancora bene gli psicanalisti, almeno perché, deontologicamente, non potrebbero permettersi di affrontare un problema come quello del diritto a una forma individuale di sanità con pensiero sommario, e tanto meno "correzionista". E' noto che la psicanalisi soffra di qualche scacco costituzionale (l'uso di strumenti razionali per operare su una materia almeno per metà irrazionale; l'astrattezza autoreferenziale della figura dell'analista), ma cui non mi sembra urgente reclamare alternative, di fronte al suo proposito, finora senza concorrenza, di aiutare chiunque a dar senso a quello che è. Checché ne abbiano predicato Deleuze e Guattari (non a caso, in altri tempi), soltanto due tipi di analista sono da evitare: lo stupratore di inconsci per delirio di onnipotenza (che può essere persino dannoso) e l'integralista di qualche indirizzo troppo specializzato e/o infarcito di teoria (che può continuamente depistarsi e depistare). Ma al riparo da questi, c'è senz'altro da spezzare più lance in favore della psicanalisi che di entrambe le vie della medicina. Del resto, le indicazioni per contrastare i guasti della società - compreso l'asse correzionismo-mala sanità - non possono provenire che da una coscienza psicologica, un'attenzione a "l'essere psichico collettivo", come dicevano i surrealisti.
Peccato che Breton e Freud non si fossero intesi granché.

mercoledì 6 gennaio 2010

Bere bene e fumare bene per vivere meglio

Ho sempre un po' diffidato di chi non beve nessun tipo di alcolico e non fuma. Non certo di chi non fa una sola delle due cose, che può giustamente non piacergli, ma di chi non le fa entrambe: chi, strana coincidenza, esclude dalla sua vita quotidiana proprio i due piaceri compensativi più a buon mercato per la condizione adulta - anche quando è solo l'anagrafe a definirla.
Soprattutto in un paese casermale come l'Italia, questi piaceri vengono comunemente chiamati "vizi", essendo soprattutto piaceri tendenzialmente antieroici, come ogni forma di autococcolamento - diversamente, per esempio, dal sesso. Ma ignorare le possibilità di valorizzare i momenti della vita che entrambi offrono, dalla giusta leggerezza alla giusta concentrazione, mi sembra decisamente scarsa realtà, e senza il bisogno di contrapporci le gesta di scrittori, poeti o quant'altro.
In base alla mia esperienza, credo infatti di poter ricondurre questi ambigui astensionisti, tranne rarissime eccezioni, a tre tipi umani, non certo meravigliosi:
1) il virtuoso di principio, efficientista, correzionista e perciò salutista, nell'ideale di essere ineccepibile con la società, il lavoro e la famiglia (che immancabilmente ha), spesso filo-animalista e/o filo-ecologista, un po' persona "in meno" nella socialità di piacere, perché dice poco, mai nulla di personale; essenzialmente un affiliato della vita strumentale tout court;
2) l'aspirante vegetale, lobotomizzato dalla fede cieca in un presunto ordine superiore (discipline spirituali o della potenzialità, veganismo, medicine alternative etc.) e appagato della fantomatica perfezione che l'abdicazione al sé in favore di quell'ordine gli assicurerebbe in permanenza, perché banalmente timorosissimo di assumersi la responsabilità del suo essere individuale, quindi delle ritualità della sua vita;
3) il tipo non godereccio dell'eterno fanciullo (prettamente italiano), mancato all'appuntamento biologico con i piaceri compensativi adulti, essendo mancato a quello con la sua individualità, e quindi con un gusto consapevole; impigliatissimo nella famiglia di provenienza e a volte un po' ipocondriaco, ma che conserva una fame da età dello sviluppo; spesso dispensatore di giudizi rigidi e petulanza insopportabile.
Il problema, comunque, è che questi nuovi mediocri, oggi diffusissimi, non sono neppure il peggio della nostra società. Non sono pompieri clerico-fascisti, conoscono l'inquietudine e hanno mediamente coscienza dell'altro. Sono semplicemente gli inquinati passivi del messaggio di mortificazione dell'individuo lanciato dai poteri contemporanei: lo strato capillare del guasto provocato a sinistra da destra e cattolicesimo insieme - quello che su grande scala è lo stile del PD. Prova ne è che con loro nessun discorso un po' complesso, un po' sollevato dalle evidenze, attecchisce mai. Alcuni di loro si sentono persino in mano un potere di contraddittorio: ovviamente, con argomentazioni anguste, meccanicistiche, robotiche.
Certo, sia bere che fumare in eccesso è dannoso. Ma si sappia che lo è proprio nella stessa misura in cui è preoccupante, cioè da curare, il bisogno eccessivo, smodato, di compensazioni: quando il soddisfarlo comporta una serializzazione dell'atto che comprime il connesso piacere rituale. Chi beve in eccesso, semmai mescolando di tutto, dubito che si procuri dell'autentico piacere rituale: la compulsività dell'atto ripetuto lo scavalca, lo annulla. Così come dubito che chi accende una sigaretta dopo l'altra, in ogni momento e situazione, ricavi di meglio dell'assecondamento di un tic. Ed è una disgrazia che al bere e al fumare si associno immagini come queste; che esistano l'alcolista pirata della strada e il fumatore oggettivamente fastidioso, perché sono i loro dubitabili modi di volersi bene che hanno suscitato l'epocale furore proibizionista. E, c'è poco da fare, il proibizionismo deteriora le vite di tutti. La cosa proibita la si fa lo stesso, soltanto che la si fa con stress, cioè male anziché bene, con meno piacere e più danno al corpo.
Ora, sia ben chiaro che bere e fumare bene significa tutt'altro che concedersi questi piccoli grandi piaceri soltanto in occasioni particolari, e tutt'altro anche dal poco ma buono. Non è esattamente la qualità della materia impiegata a fare quella dell'atto. Lo è comunque la libertà di ripeterlo, la sua non eccezionalità. Sta poi a noi dosarlo secondo il nostro effettivo desiderio. Ed è qui che misuriamo la nostra capacità di sentire l'unità psiche-corpo: dotazione essenziale dell'individuo, se abbiamo il coraggio di ammettere che l'individuo si determina attraverso l'autogestione e l'autoaffetto reale - opposto a quello indotto dai luoghi comuni (tra cui non bere e non fumare). Autogestione e autoaffetto reale significano infatti sentire, sentirsi, pensare con la propria testa, riconoscere il senso dell'egoismo (il che migliora il senso dell'altro), farsi un baffo dei modelli di vita, vivere il più possibile in un tutto rituale l'insieme dei propri momenti.
In America, intanto, con un movente omologativo certamente più fantapolitico che paternalistico (come il nostro), hanno messo a punto niente meno che un vaccino contro il piacere di fumare - e, si badi bene, il piacere, non il desiderio. Difficile a dirsi che cosa possano ottenerne a vantaggio della salute della gente, dal momento che non può certo derivare gente più sana dalla soppressione di un piacere, soprattutto se compensativo. Ne deriveranno piuttosto, e nella migliore delle ipotesi, un bel po' di nevrotici in più, di prevaricatori o di truffatori, come in Italia. Perché un piacere tolto dovrebbe essere immediatamente rimpiazzato da uno nuovo, almeno in una società laica che si rispetti, e individuarlo potrebbe non essere così immediato per chiunque. Questo, d'altronde, sarebbe il vero punto di forza del Viagra, se effettivamente fa riacquistare insieme desiderio, energia e piacere sessuali a chi li ha in declino.
Resta che quelle stesse società laiche farebbero meglio a tutelare quanti più piaceri sia possibile, a studiare come fare per tutelare quegli aspetti più psicologici, meno meccanici, della qualità della vita, anziché affidare tutto grossolanamente al proibizionismo omologatore. Insomma, se proprio i poteri devono esistere, che speculino anche su questo! Mi sa tanto che l'omologazione non prometta granché a lungo termine.