giovedì 9 aprile 2009

Italiani, povera gente

"Se i miserabili avessero la possibilità d'associare tra loro le immagini
della propria sventura, ne sarebbero in breve prostrati.
"
(Georges Bernanos)



Oggi, 2009, non c'è più alcun dubbio: la scena morettiana dell'assalto degli italiani al palazzo di giustizia che ha condannato il Caimano appartiene alla migliore fantapolitica - e compensa la sciattezza di tutto il resto del film. Perché oggi, 2009, gli italiani hanno imparato persino a lamentarsi di un male "dello schermo", pur di non prendersi responsabilità. Altro che crisi venuta dall'America (e che l'America si riprendesse, dice Berlusca)! Il male vero è un dramma fantapolitico di casa nostra, nato in casa nostra, anzi in soggiorno, dove "brilla la tivù". E' il dramma assurdo di un popolo che ha perso la facoltà di fare due più due, che non riconosce più l'evidenza, e che, nel frattempo, si accontenta di una vita strumentale. Che neppure coglie al volo qualche scheggia di informazione democratica che ancora, malgrado tutto, gli viene concessa, la quale parla proprio del suo sacrificio vivente.
No, niente da fare, la massa degli italiani non pensa più. Eppure, curiosamente, l'atto di scegliere lo compie. Sceglie la tutela attiva di quel sacrificio, di quei bassi stipendi, di quegli altissimi stipendi dei politici, di quegli altissimi costi dei servizi - tali, ovviamente, anche per le imprese. Sceglie la sperequazione tra le classi sociali, l'isolamento culturale, il razzismo strapaesano, l'ostracismo per papà Englaro, la sanguinarietà della polizia, la severità di facciata del ministro trafficone, la persuasività della ministra hostess (ignota sino al giorno prima della nomina), la rappresentanza del gaffeur (in cui non riconosce il comunicatore timido e sprovveduto che è fuori dal mondo del puro business).
Sì, d'accordo, quello che gli italiani hanno bocciato era cartapesta, e cartapesta è rimasto, mentre Berlusca, in fondo, il messaggio casualmente giusto l'aveva pur lanciato: non stiamo a menarcela! vita leggera! E' che per lui, l'imprenditore parvenu, il furbastro dalla facoltà di simbolizzare inesistente, questo significava semplicemente - com è avvenuto - ridurre la vita a un assoluto commerciale, cioè specializzare la soluzione del generale. Roba da soviet e da fascio alla stessa stregua, e che neppure la destra più becera immaginerebbe di realizzare in un paese dell'Occidente, popolato di individui. Ma gli italiani, evidentemente, da popolo di cui può approfittare ogni potere deresponsabilizzante, sia esso mamma che tutto perdona o papà che tutto dispone, proprio questo hanno scelto: anzi, scelto e riscelto. Nessuno ha temuto di diventare cittadino di un'Alphaville minore, contrapposta a un'Occidente di "paesi esterni" - come l'Alphaville godardiana. Nessuno ci ha pensato, perché il virus che attacca le sinapsi aveva già attecchito. Con una facoltà di propagazione nettamente inferiore a quella della radioattività, non riuscendo a valicare l'arco alpino, ma con una diffusione capillarissima e quasi indiscriminata dalla regione cisalpina alla Sicilia.
Che cosa, dunque, avrebbe fatto sì che questo virus s'impadronisse dell'italianità contemporanea fino a identificarvisi? O meglio, senza metafore, che cosa ha fatto sì che gli italiani sacrificassero le loro microstorie a quella omologazione nei modi di un popolo non secolarizzato e neppure borghese-occidentale? Una fragilità nuova o antica? Direi antichissima, e la definirei "scarsa realtà".
Più precisamente, si tratta di una particolare, parossistica disponibilità ad accogliere l'astrazione al posto del riscontro dei sensi. Una disponibilità ammaestrata che, almeno a partire dalla Controriforma, ha reso compatta - contro ogni culto della secchia rapita - l'intera "espressione geografica" italiana in nome del più ruffiano surrogato della metafisica, ovvero la chiesa cattolica apostolica romana: clamoroso strumento di potere e di persuasione, machiavellica panacea per i lestofanti e serbatoio di assistenza per i deboli.
I quali deboli, oggi sono per eccellenza gli italiani, alla stregua soltanto degli islamici. Tutti povera gente, che abbiano o meno quattrini. Tutti che tentano piccole, medie o grandi truffe pensando al bene della famiglia, o che, pensando al bene che dispensano loro la famiglia, il calcio, il ripulirsi la coscienza con qualche stronzata "tutti insieme", si rassegnano alla povertà.
Per il potere, è stato un gioco da ragazzi far desiderare a tutti loro le stesse cose, imbonirli con il concetto astratto della cosa desiderabile per tutti. Astratto come la meta di far soldi, se non è il diretto piacere soggettivo a beneficiarne.
D'altronde, nessun Tanzi, nessun Berlusconi, nessun Sindona, a suo tempo, ha mai riconosciuto l'inversione di priorità (tra cose della vita) suscitante il suo notevole impegno facinoroso. Così come nessun mafioso o camorrista riconosce quanto esente da autentico piacere sia la sua vita. Intanto, nei "paesi esterni" che fanno l'Occidente, di truffatori ce n'è tanti di meno, e di mafiosi e camorristi non ce n'è per nulla. Vorrà pure dir qualcosa.
Ma sì, i conti tornano alla perfezione. E c'è poco da rimpiangere l'Italia quasi prima in classifica nelle lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta, l'Italia in cui si agitava Pasolini e di cui ricordiamo tanto cinema nevralgico. In quella stessa Italia c'erano anche le Br, l'incarnazione eversiva più liberticida, più soggetticida, più antidesiderante che possa ricordare chi è ancora su questa terra. Persino il Sessantotto, in quell'Italia, non curava granché il soggetto della rivoluzione, né l'idea di una rivoluzione realmente ambientata oltre l'età del pane, non avendo avuto anime trotskiste, anarcoidi o situazioniste, ma soltanto un genericissimo motore marxista-leninista. E del Settantasette vogliamo parlare? Quanti erano veramente, tra i settantasettini, gli aggiornatori del desiderio? Quanti i veri convinti della politicità del personale, cioè del desiderio stesso? Potrebbe essere tutta un'epica bell'e buona.
Che fare, dunque, contro il male antico che fa ed è l'Italia? Non si può contare su una "organizzazione del pessimismo" (W. Benjamin), perché troppo pochi italiani si accorgono che la vita italiana è "pessima". Non si può contare su un momento in cui scatti il meccanismo dell'intolleranza e nasca la rivolta (l'homme revolté camusiano), perché gli italiani non si rivoltano mai, accettano di tutto se è salva la famiglia - che nessun potere italiota toccherebbe mai loro. Certamente, è molto importante simulare la fiducia in queste possibili energie, almeno in ambiti parziali: dai sindacati al giornalilsmo-verità, anche e soprattutto televisivo. Ma soltanto perché accettare con le mani in mano l'idea di un paese-razza dal destino irreversibile ci ripugna.
Nel frattempo, però, consideriamo che, a fronte di ogni presente, ogni passato è più o meno mostruoso, che il tempo in cui si sputa sulle libertà conquistate prima è comunque migliore di quel prima: soprattutto consideriamo che la storia più vera, la più affidabile è quella che si fa da sé, lungo la quale il desiderio e l'intolleranza crescono, demotivando sempre più le devozioni ai fantasmi e ai poteri abusanti.
Rispetto a questa storia, i cosiddetti passi indietro non sono che le illusioni dei semplici, facilonerie a fiato corto. Ed è proprio il virus di questa storia "naturale" che sconfiggerà quello dell'italietta.
Nulla di paradisiaco, in tal caso, ma almeno un paesaggio di ingiustizie, di contraddizioni e di crudeltà mondane. Cose preferibili, malgrado tutto, alle grosseries da parrocchia, o da secchia rapita, appunto, che opprimono l'individuo e il suo desiderio da distanze troppo ravvicinate.

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