martedì 19 giugno 2012

Per un'estetica veramente anarchica (e per farla finita con la cosiddetta cultura)


1. L'umanismo tradito.  Sull'idea di un'estetica più libera della vita si sa che la cosiddetta cultura ha sempre investito molto.
Il primo passo è splendido: la valutazione romantica dell'interessante come bello, o a discapito del bello (Schlegel), la quale mette in moto il dubbio sulla retorica altomimetica e apre la strada al senso poetico del sentimento umano e della sua imperfezione. Persino la musica, l'arte proporzionalmente più snaturata da quelle ricette di stilizzazione (essendo un'arte eminentemente psichica), ne assorbe una bella scossa: un legame finalmente forte del musicista allo strumento, uno solo, e una drastica semplificazione delle strutture compositive a vantaggio dell'espressione, o "informazione sul sé", che questo legame consente e stimola - si pensi alla brevità e alla forma canzone che caratterizzano le più intense pagine di Chopin, Schumann, Liszt...
Ma la prospettiva di un'arte "liberata" viene immediatamente dirottata su percorsi meno pericolosi per l'autorità dell'arte, e con un alibi perfetto: l'opposizione irrazionalista dell'arte alla società, di cui Novalis potrebbe essere il portatore sano. Sicché quel concetto di "interessante" viene addirittura esaltato, ma attraverso torsioni su torsioni ad usum delphini, e la liberazione della/dalla forma passa da mezzo della veridicità dell'espressione a fine dell'arte stessa, consacrazione dell'assoluta superiorità dell'arte all'emozione terrena.
Questo atteggiamento, in cui si riconosce lo spirito delle avanguardie, dalle prime alle ultime, contiene dunque una rivelazione importante: che la cosiddetta cultura non è il contenitore cumulativo e neutrale del sapere del quale potremmo servirci tutti; piuttosto un esteso e ramificato nucleo di potere particolarmente attento a mantenere il suo dominio inaccessibile a chi non presenti la precisa caratteristica di capirne o saperne riprodurre o moltiplicare determinati codici.
E' esattamente questo, dacché la sua funzione primaria è di contrassegnare la borghesia. Non certo quella del faccendiere, né quella del borghese piccolo piccolo, ma una infinitamente più nobile. Quella che in Francia aveva rivendicato il suo status con la rivoluzione e che nel mondo protestante aveva nel sangue anche il germe operoso di certa aristocrazia. Quella di cui faceva parte Nietzsche quanto Marx, e di cui ancora fanno parte l'intellettuale, l'artista, il professionista di lignaggio. E' la classe che per oltre due secoli ha salvaguardato l'ultima mappa delle classi stabilita non esattamente dal denaro, e una classe che nulla avrebbe mai salvaguardato meglio di un olimpo dell'intelletto; nulla meglio di una riserva di opposizione interna a se stessa; nulla meglio di un falsetto libertario così capace di irridere e ricattare moralmente il desiderio profano.
Che i dadaisti abbiano predicato di lasciare mogli e amanti, scendere per strada e sparare alla folla è la prova estrema della loro appartenenza a quell'olimpo e la prova estrema che quell'olimpo sia la sola agenzia autorizzata ad autorizzare atteggiamenti in contrasto con il buon senso, il che, per molti aspetti, significa anche con i sensi e le attitudini della psiche umana.

2. Sinossi della falsificazione.
  Questo è il motivo per il quale estetica e psicanalisi non si sono mai date una mano (Norman O. Brown), esito che potremmo persino considerare autonomo dalla storica polemica delle "due culture" - umanistica e scientifica. Ma è evidente che la rinuncia non sia pesata granché. Soprattutto di fronte all'eccitante condizione di godere di una libertà che funziona da merce di scambio. Più l'artista è autoindulgente e più la cosiddetta cultura, proprio perché quell'autoindulgenza la spaccia per sentire superiore in materia di desiderio e di libertà, protegge la sua classe protettrice. A garantire la riuscita del tutto, l'implicito ricatto morale a chi pure penserebbe e sentirebbe "in alto" – il quale, per riflesso condizionato, mai metterebbe in discussione ciò che del pensare e sentire "in alto" costituisce l'autorità. Anche perché la sua fatica di stare al gioco, di apprezzare, capire o fingere di capire il capriccio d’autore in cui potrebbe anche non esserci proprio nulla da capire, la ricompensa in automatico lo status symbol dell’essere “uomo di cultura”.
In sé, l'autoindulgenza dell'artista è un atteggiamento non libertario perché si concretizza puntualmente in un artificio di forma tanto significativo per la specialità alla quale appartiene, quanto direttamente o indirettamente dannoso alla comunicabilità di un eventuale contenuto extra-estetico. Cioè gode di una libertà che all'esterno non si riproduce o si riproduce come suo opposto (difficoltà di interpretazione, necessità di studio etc.).
Nelle arti che hanno la facoltà di narrare (letteratura, cinema e teatro), per esempio, l'effetto ricorrente è che, anziché acutizzare il senso di un contenuto che, se effettivamente esiste, sarebbe magari propositivo di per se stesso, ne surroga la vitalità intrinseca con quella autosignificante di un filtro forte che inevitabilmente lo appanna.
Prendiamo Joyce. Ci mancherebbe che non avesse avuto a portata di mano contenuti di rilievo! Ma l'artificio temporale dell'Ulisse li sgrana, li polverizza, li strania dalle proprietà temporali delle associazioni dell'inconscio. Né ci aiuta a raggiungerli per altra via l'artificio dello stile differenziato di ogni capitolo - se non, banalmente, dove è più lineare.
Nel cinema, ovviamente, l'autoindulgenza è il pane del regista sperimentale o militantemente cinefilo. Godard, per esempio, attraverso il "godardismo" (misto di culto dell'immagine alla sovietica, trasposizioni di Lacan e qualche scheggia di semiologia), filtrava incandescenti riflessioni sui paradossi dell'ideologia, del rapporto pubblico-privato, della differenza uomo-donna etc., con l'effetto di farle apparire tanto più eloquenti come riflessioni sull'arte e la cultura del cinema. E la conseguenza sociale, anche contemporanea, è che chi non capisce o non apprezza il cinema di Godard è semplicemente perché non è un addetto ai lavori; quel filtro gli parla poco. Mentre chi non riesce a interpretare certi passaggi de "La via lattea" di Bunuel è perché ne ignora certi contenuti che varrebbe invece la pena di conoscere (le eresie della cristianità), dal momento che (l'anarchico) Bunuel, persino in un film-saggio in forma di elenco, non adopera autentica violenza alla naturale aspettativa di causa-effetto. Chi poi non capisce "Strade perdute" o "Mulholland Drive" di Lynch è solo per scarsa familiarità con la vita oltre l'evidenza o scarsa disponibilità a saperne. Si parla di sogni, come ne facciamo tutti, e alla fine i conti tornano - a Lynch, piuttosto, potremmo avere il diritto di non perdonare "The Inland Empire", almeno quanto non perdoneremmo a Pasolini "Porcile".
Questioni lievemente diverse vanno sollevate riguardo la musica: sia in quanto arte "non imitativa" (platonianamente detto) che per la singolarità della sua presa sull'inconscio. Il che significa capacità di suscitare in noi tristezza, gioia, pace, abbandono, tensione, tormento etc. senza la mediazione di un autonomo contenuto.
Infatti, negli anni Sessanta e Settanta, in pieno delirio di onnipotenza dell'autoreferenzialità dell'arte, circolava persino l'ipotesi che la musica non potesse essere arte se non da negatrice assoluta di quelle straordinarie proprietà. Il patrimonio classico veniva rispettato per retorica, il rock tenuto in considerazione soprattutto per allettamento nichilista, il presente affidato a Cage e dintorni, i rumori del caso. Ovvero, la musica non poteva essere arte se non era frutto di autoindulgenza assoluta dell'autore. Ovvero, la cosiddetta cultura negava la musica alla gente. Fesso chi ascoltava musica intelligibile che non fosse vetusto parto dell'accademia.
Questa è forse la forzatura che più di tutte svela la cosiddetta cultura nella sua disonestà e nella sua gratuità. Al punto che la sua funzione più apprezzabile potrebbe risultarne la protezione dell'artista autoindulgente non come dispensatore di sentire superiore, ma come individuo che, fuori da quell'intoccabile carica pubblica, avrebbe facilmente impersonato una "forma di esistenza mancata" (L. Binswanger) per eccentricità, disadattamento o anche incapacità di godersi la vita. Resta il fatto che neppure questo ci sarebbe senza la sua funzionalità estrema a quel tacito patto di sangue, e che quindi neppure gli artisti stessi, a prescindere dalle loro esistenze private, ne sono stati beneficiati allo stesso modo. Non a caso, quello che ha espresso "senza filtro" contenuti anche particolarmente ricchi, o semplicemente fatto musica ricca, non spogliata di tutto, la cosiddetta cultura lo ha destinato a una sorta di seconda scelta. Non è un portavoce eletto. Così persino Kafka rispetto a Joyce! Davvero il colmo! Ma poi un Roth rispetto a un Burroughs, un Petri rispetto a un Godard e immancabilmente ogni grande artista del jazz, da Ellington a Mingus, da Monk a Coltrane, rispetto ai Cage, Stockhausen, Ligeti...

3. L'input situazionista.
  Tutto questo, però, non significa affatto che l'artista debba "servire il popolo" tout court, e tanto meno l'establishment. L'artista è libero per definizione, almeno nel fare arte, e sta a lui scegliere un uso, un carattere, una forma di questa libertà: sceglierne una destinazione specializzata o no. La cosa certa è che questa libertà non viene esportata dal prodotto estetico che, a qualsiasi titolo, può essere goduto soltanto attribuendogli un plusvalore estetico di competenza specializzata. Chiunque, persino lo studioso, per goderne, deve adoperare un codice appreso, indipendente dal proprio sentire, rimanendone inesorabile spettatore.
Sull'importante questione dell'impossibilità di chi è spettatore di "vivere" qualcosa si è notoriamente espresso Guy Debord, e con l'acutezza di liquidare anche ciò che di simile avevano anticipato i borghesissimi surrealisti.
Dopo aver fondato nel '57 l'Internazionale Situazionista con l'adesione anche di alcuni artisti visivi, Debord ne espelleva l'intera ala artistica nel '62. In una visione situazionista del mondo, non riconosceva altra arte che la poesia in atto nella vita quotidiana, di cui nessuno è spettatore. Ammetteva soltanto, entro limiti purtroppo un po' rigidi, la possibilità di un "uso" situazionista dell'arte.
Mai spiegato in dettaglio da Debord, questo concetto non può comunque che sottointendere un equiparazione tra il bello e l'interessante che ci mette - eventualmente - a disposizione il prodotto estetico e quelli che appartengono alle "situazioni" che siamo in grado di costruire e vivere, il che ci fa trarre due importanti conclusioni di carattere generale: 1) che l'arte come specialità separata dalla vita non ha possibilità di autonomia, ma solo di autarchia; 2) che non esiste un modo di "vivere" il prodotto estetico diverso dal goderne attraverso i nostri sensi, il quale ce ne fa protagonisti e responsabili, mentre il puro godimento estetico è una condizione indotta unicamente da un'istruzione ricevuta e che può apparire partecipativa solo per assuefazione al codice specializzato di quell'istruzione.

4. L'oggetto dell'estetica anarchica.
  Queste conclusioni sono importanti anche perché restituiscono il termine "estetica" al suo originario significato di settore della conoscenza in cui è coinvolto l'uso dei sensi (Baumgarten), significato innegabilmente più ricco di quello operante, oltre che etimologicamente corretto. L'estetica come costola della filosofia che si occupa delle arti e che, al posto dei sensi, chiama in causa un apposito codice ricettivo esiste solo per puro comodo della cosiddetta cultura. Anarchica, pertanto, dovrebbe essere prima di tutto un'estetica che non rispetti quel comodo di casta che limita la nostra conoscenza e si riappropri della libertà di spaziare ovunque: dal prodotto statutariamente estetico che ci suscita godimento pratico alla situazione della vita quotidiana.
Ma il problema può anche essere esaminato più in dettaglio da un'angolazione diversa: in particolare, quale contributo di sentire libertario o di bellezza che "libera la testa" possiamo ottenere dai prodotti statutariamente estetici, da quali, a quali condizioni e se queste condizioni possono essere eventualmente diverse da quelle in cui godiamo di situazioni della vita quotidiana.
Cominciamo allora col distinguere i contributi di libertà e di bellezza, essendo cose diverse, e col dire che il messaggio di libertà veicolato da un prodotto estetico è un messaggio di contenuto che la forma può tutt'al più acutizzare, mentre la bellezza trascende la distinzione tra forma e contenuto. Questo, con buona pace della vetusta, facilona, visione crociana di tutte le arti sotto un unico cielo.
Pertanto, il messaggio di libertà non può essere veicolato che in modo molto ellittico da un prodotto estetico che non ha la facoltà di narrare, condizione che quanto meno ne impoverisce il potenziale di coinvolgimento emotivo. Ma è importante anche che non lo ostacoli alcuna barriera ricettiva perché - anarchicamente - "si completi" attraverso la nostra libertà.
Grandissimo Edgar Allan Poe a sostenere il racconto come atto di generosità dello scrittore verso il lettore; cioè l'importanza di una funzione "donativa" dell'artista, di una visione del mondo messa a disposizione dell'esterno. E grandissimi Bunuel e Ferreri a mostrare visioni del mondo anarchiche con la massima estraneità agli artifici di forma. Scene e sequenze concepite unicamente per mostrare al meglio ciò che evidentemente premeva loro mostrare. Nulla di più, se non si è così burocrati da leggere come artificio di forma il lungo piano sequenza ferreriano di "Dillinger è morto". Ma di loro è interessante anche un altro aspetto: che, accanto ad altri di indubbio spirito libero (tra cui Fellini e Pasolini), sono stati tra i massimi detrattori dell'esportazione del film in lingua origiale con sottotitoli - all'opposto dei Godard, Straub, Wenders, naturalmente. Detrattori del godimento estetico del film e sostenitori di un godimento così pervasivo da richiedere il conforto della lingua in cui si pensa e si sente.
Almeno rispetto al messaggio di libertà, si può dunque sostenere che il prodotto statutariamente estetico sia in netta prevalenza eteronomo. Vale ciò che l'artista ha da dire o contraddire della vita, senza che chi dice l'inedito sia migliore di chi mostra per far sentire, e le condizioni di ricezione è importante che siano quanto più favorevoli alle esigenze sensoriali del destinatario.
Ma non sono poi così fiscali gli ostacoli che a questa visione pone necessariamente un discorso sul prodotto estetico portatore di bellezza. La differenza consiste nel fatto che per "bellezza" si può valutare anche l'intensità, caratteristica capace di estendere la possibilità di godimento non soltanto, per esempio, alla tensione drammatica, ma anche ad aspetti che dipendono unicamente dalla forma. E sappiamo bene che questi, se nelle arti che narrano sono comunque complementari al contenuto, possono avere valore autonomo in poesia, ancora più chiaramente in arte visiva e del tutto in musica.
La questione si fa complessa solo perché la poesia ha modeste possibilità di interagire con la vita quotidiana del non poeta, l'arte visiva non ne ha praticamente alcuna con quella del non artista - tanto che può "dilettare" il bello di un dipinto non iconico, come può "colpire" per motivi del tutto extra-pittorici il contenuto drammatico di un dipinto iconico - e la musica ne ha invece finché se ne vuole, più o meno a tutti i livelli.
Un godimento spregiudicato della poesia, infatti, è praticamente impossibile. Nella poesia tradizionale, la goffagine della sua forma mortifica un contenuto presente - motivo per il quale, anche di un Leopardi, ciò che godiamo non è che una faticosa ricomposizione di frammenti di un sentire antiretorico eventualmente anticipatore del nostro. Nella poesia progredita, le strategie che provvedono a un'unità forma-contenuto, intenzionale o reale, non possono suscitare che un godimento specializzatissimo, tra parole, suoni e impianto grafico.
L'arte visiva, dal suo canto, è quella che ha la presa più modesta rispetto al suo ruolo istituzionale. Benché percepita con il senso solo mentale che è la vista, il suo potenziale evocativo può facilmente mettere in moto reazioni psichiche di qualche intensità; persino il solo colore. Ma la cosa ha spesso molto poco a che fare con il linguaggio dell'artista, e per nulla con quello che è metalinguaggio. Nel senso che, se lo scolabottiglie di Duchamp è un'icona per chiunque sappia che cos'è e aria fritta per chiunque altro, la fotina di Gina Pane che si tagliuzza un braccio con una lametta colpisce anche il profano, ma quanto lo colpirebbe una qualsiasi visione simile.
D'altronde, l'affanno sinestetico delle avanguardie e neo-avanguardie visive potrebbe essere il sintomo più progredito di questa congenita impotenza.

5. Il punto su "la più importuna delle arti" / Elogio del jazz.  All'arbitrarietà dell'arte visiva - che apposta si chiama solo "arte" - fa come da contrappeso la pervasività della musica - di cui apposta la cosiddetta cultura si limita a riconoscere la produzione propria. Infatti, soltanto chi la musica non la "sente" non ne viene coinvolto - godendo, in compenso, del vantaggio impagabile di ridurre a decibel il fastidio per la musica subita. Chi la sente non può che derivarne o reale godimento o reale fastidio.
In generale, considerando che siamo tutti tanto diversi quanto anche simili, la musica che più ci procura godimento musicale è quella che più possiede la facoltà di trasmettere emozioni attraverso mezzi propriamente musicali. Quindi, musica strumentale, priva di un testo comprensibile che le sottragga energia, cioè ricca di elementi, di carattere e di espressione endogeni, che sia drammatica o gioiosa, tesa o rilassata, desolante o edificante; musica anche di lessico avanzato, purché in qualche modo intelligibile. Stiamo ovviamente tra musica classica, jazz, qualche raro esempio di musica etnica e qualcuno ancora più raro di rock - la cui anima musicale non è praticamente mai maggioritaria. Perché la musica banalmente orecchiabile, a parte l'associazione al vissuto, non può suscitare che godimento musicale modesto, se non fastidio per eventuali risvolti di volgarità o di regressività congelata, mentre la musica di pura indeterminazione, cioè per nulla intelligibile, non può suscitare alcun tipo di godimento sensoriale, non essendo così il fantomatico godimento estetico.
Ciò nonostante, la musica classica, anche nella produzione ancora estranea alle avanguardie, è quella che più pone ostacoli al godimento, che assicura più facilmente a un orecchio "ammaestrato" che a uno sensibile. E questo perché  - almeno da Haydn in poi, ma collocando Mozart nel prima - è la sola musica che è stato possibile creare a meno di talento naturale e senza che ciò la "declassi". O più esattamente, perché l'autosignificanza del suo statuto accademico è stata sempre tale da "coprire" il passaggio faticoso, non sentito, architettato per collegarne altri presumibilmente più felici, ma anche l'intero movimento di una sonata, un concerto o una sinfonia che è stato creato soltanto per compilazione della relativa forma compositiva. Episodi che l'orecchio ammaestrato arriva persino a magnificare, affascinato dalla loro incongruenza che ama interpretare come mistero, tempo reale dell'emozione o cose simili, ma che l'orecchio sensibile avverte immediatamente, e giustamente, come musica che non scorre, dalla quale si riceve poca cosa, se non il fastidio del baro. E pensare che di episodi così se ne ritrovano in Beethoven, Schumann, Brahms, Mahler..., tantissimi! Si fa prima a dire che, in tutto il secolo romantico, ne sono immuni appena Schubert, Chopin per piano solo e Liszt per piano in genere. Poi sarà ancora peggio.
Immune è invece quasi tutta la musica pre-ottocentesca - che potremmo considerare pre-borghese. Perlopiù scorre e perlopiù se ne può godere. Soltanto che la sua distanza dalla nostra sensibilità, dovuta anche all'antica fede nel sentimento sublimato, ne fa il godimento più freddo, meno sostanziale, un po' evasivo; alienato almeno quanto lo è mediamente la fruizione di tutto ciò che è remoto. Tanto che, fino a tutti gli anni Sessanta, le esecuzioni di Bach, Vivaldi o chi per loro si tendeva un po' a "ottocentizzarle". E tanto che lo stesso problema aveva sensibilizzato anche la sponda dell'eresia: il Glenn Gould delle sue prime "Goldberg".
Nulla però ha impedito di essere una clamorosa occasione perduta alla musica novecentesca, che proprio lo spirito dell'avanguardia ha consegnato ancora più rigorosamente all'immunità accademica. Il cliché depressivo che, nel secolo precedente, poteva anche esprimere la superiore coscienza dell'artista che avverte una vita inavvertitamente depressa - come è invece facile immaginarla oggi rispetto alla nostra - viene sostituito da quello prettamente filosofico della desolazione, come se la coscienza "progredita" non potesse che cristallizzarsi su una sola gamma di tonalità emotive. Una simulazione di umanismo fatta su misura per la ricerca che già ai primi del Novecento eccitava il musicista borghese, al quale, da allora in poi, l'essere talentuoso non procura proprio più alcun vantaggio, ma soltanto ostacoli. Sicché, all'orecchio sensibile non restano che schegge: essenzialmente, il Debussy pianistico, un po' di Satie (soprattutto evitando di capirlo a fondo), un po' dello Stravinsky russo-parigino, pochissimo Bartok, un po' di Ravel, un po' di musica chitarristica spagnola e, diciamolo pure, un bel po' dello snobbatissimo Rachmaninov. Il resto è ad uso esclusivo di un orecchio iperammaestrato.
Da un certo punto di vista, spregiudicato a dir poco, la perdita novecentesca di una musica di qualità che sia anche musica "per l'umanità" è stata lentamente compensata dalla maturità del jazz. E questo, per motivi che sembrano addirittura banali, ma che evidentemente non lo sono affatto.
Come musica nata dal basso, il jazz non accoglie il non talentuoso, che nessuna sovrastruttura borghese avrebbe indirizzato alla musica. Al tempo stesso, è una musica strumentale a parti reali, in cui il musicista, che è autore-esecutore, coltiva una propria tecnologia del sé e la mette in relazione con quelle di altri musicisti; lavora a una sorta di "espressione di sé desiderata" che è facile identificare nella musica che desidererebbe ascoltare. Ma una cosa singolare è che proprio questi aspetti così connessi all'idealità romantica, pratica, olistica, dell'artista nero costituiscono aspetti di assoluta autonomia rispetto al fine di una musica ricca, connotata di individualità e musicale, e che per questo hanno fatto del jazz un esperanto della musica di espressione d'autore-esecutore, lungi dal fatto che debbano essere soltanto i neri a crearlo e a goderne. Se ancora non è comune pensarla così, è soltanto perché la cosiddetta cultura, per i suoi soliti comodi di casta, si è per lungo tempo adoperata a denigrarlo come prodotto trogloditico o prodotto commerciale inutilmente pretenzioso. E la differenza tra le due qualifiche già la dice lunga.
Fatto sta che l'autoindulgenza del jazzista, che esiste eccome, esporta soprattutto musica dello stato d'animo. Il che significa gioia, angoscia, tensione, fibrillazione, pace, estasi, melanconia, trasmesse da melodie anche molto libere, dentro, fuori o al limite di un dato impianto di armonie, ma fatte di note, frasi e interferenze tra musicisti sempre concatenate come in una sorta di narrazione. Lo straniamento è praticamente un incidente di mestiere.
Di jazz per l'orecchio sensibile ce n'è infatti tanto: dalla prima modernità (Lester Young, Art Tatum, Ellington anni '40) agli ultimi "stili" (bebop, cool, hard bop), dal genio Monk alle tante altre grandi figure indipendenti (Miles Davis, Lee Konitz, Gil Evans, Jimmy Giuffre, Sonny Rollins, Charles Mingus, Max Roach, John Coltrane, Eric Dolphy, Mal Waldron...). Persino il free jazz non è un'avanguardia che "nega" la musica. A Ornette Coleman, Don Cherry, Paul Bley, Cecil Taylor, Sun Ra, Archie Shepp, appartengono musiche che la libertà ha reso soprattutto dense di espressione, non destrutturate. Musiche di cui un orecchio sensibile un po' coltivato può assolutamente godere.
Non è un caso, d'altronde, che a spingere una parte del free oltre la musica sia stato un desiderio rivoluzionario sociale, non estetico, e che ascoltare Albert Ayler, metamusicale finché si vuole, sconvolga in venti secondi anche chi non sa nulla né di rivolta nera né di estetica. Ma soprattutto non è un caso che la libertà del free assorbita dal jazz fuori e dopo l'avanguardia abbia prodotto una condizione ulteriormente propizia al ribaltamento di quel "desiderio musicale" sull'emozione dell'ascoltatore; anzi, propizia a una qualità di godimento musicale che difficilmente sanno procurarci altre musiche - si può giusto pensare all'ultimo Astor Piazzolla.
Certo, anche per godere di Henry Threadgill o di David S. Ware, di Paul Motian o dell'ultimo Andrew Hill, serve un orecchio sensibile "coltivato", allenato a cogliere la bellezza e la ricchezza anche del messaggio musicale più ellittico, ma è altra cosa dall'orecchio ammaestrato, colonizzato dalla mente e neppure dalla propria.

6. Disfarsi di dio e padrone sul serio.  Che la musica costituisca il solo oggetto statutariamente estetico del nostro senso più psichico - l'udito, al pari soltanto dell'olfatto - non significa comunque che chi non gode della musica soffra di un accesso limitato al godimento reale della creazione altrui. Da qualsiasi tipo di creazione altrui possiamo approvvigionarci di bello e interessante da accorpare al godimento della nostra vita quotidiana, se lo arricchiscono di materia che sentiamo e perciò rispendiamo. L'importante è realizzare che l’insieme di ciò che ci piace o ci illumina è quanto meno bizzarro che coincida con un pacchetto di cosiddetta cultura pre-omogenizzato (solo sinistra, solo passato, solo avanguardie, solo negatività, solo tizio, caio o sempronio) e partire da questo per guardare alla creazione altrui secondo un'estetica "della responsabilità", cosa che ci assicura di “far vivere” quella creazione e che non ci stimolano né il contemplare per il contemplare, né il sapere per il sapere.
Qual è allora la ragion d'essere dei prodotti estetici passibili di suscitare solo contemplazione, dell'estetica che li magnifica più di tutti e della cosiddetta cultura che solo di questa estetica si fida e si serve? Ebbene, dopo due abbondanti secoli di raggiri e ricatti morali subiti per nostra pura fragilità, che sia ora di dire "nessuna"! Si rispedisce il pacchetto al mittente in nome dell'arte di non fare passi indietro di fronte a chi ne ha fatti in avanti solo per narcisismo di casta o per rivalsa di casta sui suoi drammi personali; in nome, finalmente, della consapevolezza che l'autoindulgenza dell'artista e dell'intellettuale è abuso di potere quanto quella del politico, dell'amministratore delegato, del genitore.
Certi "sensi di colpa" in questa direzione li aveva manifestati la cosiddetta cultura stessa, quando cosiddetta cultura doveva implicare cosiddetta coscienza perché implicava cosiddetta sinistra. Ed è sintomatico che sia stato Sartre a qualificare l'intellettuale come "uno che si occupa degli altri": non Gramsci o Brecht, come ci aspetteremmo di più. Imbarazzante, piuttosto, l'assenza di ogni beneficio del dubbio nell'intellettuale che l'equazione giusta la sottointende tra cultura del dissenso e anarchia. Contro ogni aspettativa, questo tipo di intellettuale è praticamente un genoflesso DOC: senso di appartenenza drogante, forse perché drogato da quello del corporativismo che affligge le minoranze, e culto drogante dell'eroe negativo, figura assai più tipica dell'antiborghesismo borghese che non della storia che conforta l'anarchico da circolo.
La dinastia che compongono questi eroi negativi è in parte logica e giustificata: Sade, Stirner, Nietzsche, Rimbaud, Lautréamont, Jarry, Tzara, Vaché (se pure è esistito), Breton, Duchamp, Artaud, Bataille... poi, naturalmente, Debord e Vaneigem e, un po' meno naturalmente, Cage, gli artisti di Fluxus... Ci si domanda, comunque, non è che qualcuno debba andar preso con un po' di pinzette? Che qualcuno, semmai, appartenga a un passato un po' troppo remoto per dirci ancora qualcosa? Ma poi, non è che c'è dentro un po' troppa Parigi, troppa arte visiva...? E come mai il Bunuel surrealista, abbinato a Dalì e al movimento, risulta più invocato di quello della meravigliosa maturità, mentre Ferreri, per esempio, è rimasto proprio fuori tiro? Insomma, di cosa parliamo quando parliamo di anarchia? Forse questo bagaglio di negatività aristocratica viene chiamato in causa per scongiurare l'allusione a bombe, attentati, bevande avvelenate e quant'altro? E se pure così fosse, cosa di cui dubitare, perché mai innestare culti di casta in una visione del mondo che, al suo meglio, è miraggio di una società non solo "senza dio né padrone", ma anche senza classi?
La cosa persa di vista sembra essere soprattutto l'anarchia come concetto pubblico non più astratto e arbitrario di quelli di democrazia, capitalismo o socialismo. Come se anche su questa intellighenzia sedicente libertaria vincesse ancora una volta la paura della libertà; e parliamo di libertà di pensare con la propria testa, non di eludere controlli fiscali o anagrafici. Eppure è proprio così: dèi e padroni restano a custodire la scarsa realtà della cosiddetta cultura dai loro posti convenzionali, centri sociali compresi, e con questa scarsa realtà resta a fare i conti il pensiero sedicente libertario. Con Duchamp che blaterava a destra e a manca di un erotismo che i nostri inconsci non riconoscerebbero mai e con Bataille che l'erotismo lo tramortiva a botte di dialogo sui massimi sistemi; con la compulsione dell'intellettuale a creare concetti in eccesso rispetto al bisogno reale e con il disprezzo del sentimento che proprio l'eroe negativo ostenta per trasformare in potere la sua distanza dall'uomo psichico, sensoriale, desiderante.
In effetti, altro che anarchia! Anarchico non può essere che il diritto di sgamare questo contrabbando. Anzi, il piacere "responsabile" di constatare che, dove c'è la mano della cosiddetta cultura, c'è contrabbando; perché c'è paura di casta di vivere la vita come tutti e fuga di casta dalla sua realtà attraverso l'artificio intellettuale che la falsifica.
Il danno ormai è fatto. Da due secoli a questa parte, o cosiddetta cultura o dio, patria e famiglia, con aggiunta di calcio. Ma il male, come al solito, ha già prodotto altro male, e anche più acuto: l'attuale "organizzazione" del non pensiero, di cui sono ampiamente complici anche l'industria della persuasione "corretta" (discipline, seminari e corsi che ci istruirebbero su come vivere) e quella più ambigua del controllo sociale ad personam (Counseling e robe simili). E' un male più acuto perché, seppure attraverso l'azione di nuclei diversi di omologazione, a volte anche in contrasto tra loro, ha comportato comunque una funzionalità attiva, non più passiva, della società agli interessi della classe al potere. E si tratta di una classe spaventosamente meno gentile di quella borghesia dal fascino discreto.
Dovremmo essercene accorti tutti. Per cui, se chi rompe paga e i cocci, con un po' di senno di poi, riusciamo anche a riciclarli, che sia proprio la cosiddetta cultura a lavorare per prima! Che assaggi finalmente un'anarchia un po' più umanista che onanista e cominci a far l'amore! Ormai non dovrebbe avere più nulla da perdere, proprio nulla!
Intanto, al suo posto, sembrerebbe essersi già attrezzata la cosiddetta sottocultura, come testimonia la creazione di un James Bond non più playboy, stufo di violenza e con qualche cruccio esistenziale. Ma ci serve decisamente di meglio, e con una certa urgenza: si pensa troppo ai soldi e troppo poco a cosa farsene, troppo senza impegno e troppo poco con piacere. Di piacere, infatti, se ne sente troppo poco nell'aria.

1 commento:

  1. Atalante è un luogo fumoso, dove vien voglia di entrare e portar via un pezzetto per ricreare la stessa atmosfera altrove. Questo blog è interessante e attento, bello e difficile. Grazie per la magia che ci ha donato ieri. La bionda e il cappellaio

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