sabato 26 ottobre 2013

L'arte di non appartenere

Non ricordo quale "punto debole" delle mie teorie contro la cultura mi indicasse un amico culture-addict in un nostro scambio di mail. Ricordo solo che non era l'unico che riconosco, unico ma innegabile: la mancanza di precedenti storici all'interno della cultura stessa, visto il potere di colonizzazione che la cultura tuttora esercita in esclusiva sugli intelletti non ridotti ad astuzia.

Per il mondo della cosiddetta cultura, infatti, dal produttore al consumatore, quello che sostengo è del tutto nuovo. Nessuno mai ha sollevato un autentico dubbio sulla cultura come valore implicito,  autosignificante, al di sopra di tutto ciò che si possa discutere. E tanto meno chi avrebbe ostentato posizioni demolitrici dall'interno. I futuristi predicavano che "bisogna sputare ogni giorno sull'altare dell'arte", ma sono stati addirittura tra i primi a produrre arte che non vivrebbe senza questo statuto (poesia sperimentale, creazioni rumoristiche etc.). I dadaisti affermavano che la vita è tanto più interessante dell'arte, ma per vita intendevano un'esistenza stilizzata come permanente performance provocativa, cioè come opera d'arte. Dubuffet, nel fatidico Sessantotto, pubblicava un pamphlet intitolato Asphyxiante culture, ma il suo bersaglio era la cultura dei musei e dei premi Nobel, quella alla quale guardiamo come a una parata militare: non quella che ha attribuito un senso e un valore incondizionati alla sperimentalità supponendo assoluti il senso e il valore della sua autosignificanza.
Ebbene, di questa cultura, che è tuttora l'oppio del popolo che si distinguerebbe per intelligenza e attitudine a pensare, diffido per primo, avendola per primo messa a fuoco come pura cosmesi antiborghese creata dalla borghesia per persuadere della sua competenza superiore in materia di inquietudine epocale.

Il mio nodo problematico è solo Guy Debord, che le affezioni borghesi della cosiddetta cultura le aveva avvistate in tempi per nulla sospetti e con cui i conti devo farli malgrado tutto.
Come è noto, Debord attacca i surrealisti dai suoi primi scritti, si dissocia precocemente dai suoi compagni di strada lettristi e, a pochi anni dalla fondazione dell'Internazionale Situazionista, dichiara la gratuità dell'arte che non sia poesia in atto nella vita quotidiana. Ma allora perché mai trarre dalla sua produzione teorica film sperimentali, compreso La societé du spectacle? E perché mai, se si vuole, comporre questo stesso testo con una scrittura così posturata, autoreferenziale, che certo non collabora con l'incandescenza del suo contenuto? Perché ambientarsi in quella produzione di "bellezza che non promette felicità" di cui auspicava la distruzione?
Poi, c'è che la sua acutissima critica all'attrazione per i fenomeni cui "si assiste" e che perciò non possono essere "vissuti" che da spettatori, punto chiave del suo pensiero, risulta in ultima analisi disgiunta da una vera critica radicale della cultura. Quanto meno perché Debord condanna come fonti di "rimbecillimento" il romanzo e il film senza adottare alcuna distinzione tra gli esercizi di autosignificanza dei Godard/Robbe-Grillet - di cui solo religiosi spettatori possiamo essere - e quelle immagini del possibile che spesso parlano alle nostre vite al punto che noi le ritrascriviamo e perciò le "viviamo". Debord rifiuta quindi quell'istruzione sulla vita quotidiana e psicologica che l'alibi della finzione riesce spesso a somministrarci attraverso immagini più concise di quelle che ricaviamo dal nostro stesso vissuto - soltanto soggetti di grandi gesta o di vicende paradossali non possono darci questo, per forza di cose. Sarebbe stato più logico - e tanto più rivoluzionario - contestare il libro in sé, la forzatura di cui generalmente è frutto, i romanzi che potrebbero essere racconti, i saggi che potrebbero essere articoli, la frequente artificiosità delle teorizzazioni stesse; quelle pratiche della cultura che ci suppongono spettatori comunque. Ed è chiaro che, se Debord non lo ha fatto, è perché era lui stesso, suo malgrado, colonizzato da un lì e allora; confezionato dalla solita Parigi come un intellettuale contro posturatissimo, con tutta la sua canonica paura della banalità di una visione della vita che non sia sovversiva/negativa ovunque, e quindi le sue forzature, le sue approssimazioni.

Con questo, sto dicendo che persino la cosiddetta cultura non è tutta no e persino Debord non tutto sì. Ma direi la stessa cosa affermando che non è tutto no l'occidente borghese, né tutta sì l'anarchia. Cioè, sto ricordando a chi mi legge che nulla a questo mondo è sacro, eccetto il piacere dell'uso della vita, che è il perno della nostra unica ragione certa di vivere e il motore delle nostre attitudini migliori. Il grande successo del parere opposto dipende infatti dal diffuso timore di assumerci questa responsabilità, al quale corrisponde la forte domanda di quell'oppio-dei-popoli tanto meno elitario che è il senso di appartenenza: così flessibile da soddisfare con formule apposite ogni tipo umano, dal povero diavolo all'intellettuale, appunto, e in ciascun caso costituendo un apposito tipo di ostacolo al pensare davvero con la propria testa.

L'inversa proporzionalità tra senso di appartenenza e pensiero individuale è dimostrata molto chiaramente dalla sottovalutazione dell'appartenenza alla lingua, il cui pieno possesso è invece importantissimo per l'organizzazione delle nostre idee, e la sopravvalutazione dell'appartenenza alla fede religiosa, di cui non si conoscono vantaggi che non appannino ogni bagliore dell'individuo. C'è anzi da dire - questa volta con Krishnamurti - che la fede religiosa non unisce: separa quanto tutti i meccanismi che astraggono dalla vita percepita. Ma è il prezzo di un'illusione di conforto evidentemente potentissima.
Singolare, come sempre, la declinazione di questo fenomeno nell'Italia di oggi. Non più cattolica nella pratica del costume sociale, l'Italia continua a mantenersi impermeabile alla chimica dell'occidente borghese per un cattolicesimo di attitudine: soprattutto per la persistenza tra la gente di bisogni di sublimazione della responsabilità individuale espressi in vario modo, compreso un subdolo bisogno di sacrificio catartico. Non a caso, l'Italia è in testa quanto a specialisti del ripulirsi l'anima: persone che, in nome di qualche virtuale contributo al bene sulla terra, si appagano della compressione delle loro scelte di vita e dei loro piaceri. Vegani, antitabagisti, antialcolisti, apostoli della terapia come forma di vita o di una rigida osservanza ecologistica, animalistica. Ma anche persone come una mia conoscente che, dopo avermi saputo completamente rimesso dall'intervento alla prostata e risultato sano come un pesce da accertamenti fatti e rifatti, mi avverte che sarebbe ora di darmi una regolatina quanto a vino e sigarette. Ed è interessante l'associazione di questo "popolo" a un paese che, da una parte, sopporta di tutto (stipendi bassi, pressione fiscale alta, servizi costosi e inefficienti, burocrazia raccapricciante etc.), dall'altra, ha persino un proprio stile di produzione di male sociale (mafia, classe politica sovraretribuita e per giunta corrotta, collusione tra mafia e politica, massiccia evasione fiscale etc.). Ovvero, tra forzati del male che contano sul perdono divino e forzati del bene che investono su una fantomatica buona condotta, molti italiani convergono su un approccio alla vita piuttosto astratto e svalutativo della percezione terrena. Naturalmente inconsapevole.
Ma in questo paese a dir poco sui generis, catto-nazional-popolare, contadino, contadale, per motivi concomitanti si è ancora più singolarmente campioni di appartenenza al luogo d'origine, categoria che viene sfruttata tanto come riduzione a stigma dell'individuo originario di luoghi con connotazioni negative (solite povertà, malvivenza e corruzione), quanto come coloritura di attitudini comunicative altrimenti inibite.
Tempo fa era capitato nella mia libreria un sociologo greco che insegna in Canada. Era particolarmente colpito dal sentir dire "quello è così perché è siciliano, napoletano, romano...", e da sociologo osservava che questo non può certo favorire la qualità dei rapporti tra le persone, dal momento che l'individuo ridotto a frammento di un luogo è ignorato come individuo.
Certo, un luogo d'origine affetto da una certa autarchia culturale, se ci siamo rimasti a lungo, può condizionare la nostra mentalità, ma tanto meno quanto più è marcata la nostra personalità e viva la nostra intelligenza. Insomma, da vere persone, è frequente che un luogo d'origine che non abbiamo abbandonato troppo presto ci condizioni come tipo di luogo (città grande, media o piccola, centro, periferia, campagna, mare, montagna, freddo, caldo, buio, luce etc.), ma questo non arriva a segnare che singoli tratti di quello che siamo, spesso anche secondari. Molto più indicativo, per esempio, il gruppo nostro sanguigno, dal quale dipende almeno se siamo portati più al nomadismo o alla stanzialità.
Al tempo stesso, su una scala addirittura più ampia, ha senz'altro più peso di quanto non si voglia ammettere il concetto junghiano di inconscio di razza, concetto che - malgrado Jung stesso - non implica razzismo se non lo strumentalizza un ideale razzista. Tanto che se ne sono serviti particolarmente pensatori africanisti come Frantz Fanon e Léopold Sédar Senghor ("La ragione è ellenica come l'emozione è nègre") e che ha determinato nel tempo identità diverse di approcci sia artistici che di pensiero. E' comunque un livello di appartenenza sul quale si stratifica qualsiasi tipologia individuale. Soltanto l'appartenenza a nuclei molto più ristretti può direttamente condizionare la struttura dell'individuo: nuclei ravvicinati che ci segnano oltre la nostra volontà.

Tra i mali di questa terra campeggia infatti l'appartenenza alla famiglia, che la si invochi o la si subisca: chi dalla famiglia si è lasciato lobotomizzare al punto di non essere capace che di pensiero sommario e sentimenti retorici; chi è stato educato a sentire la famiglia come un patto di sangue contro il mondo esterno, con svariate conseguenze nella vita relazionale; chi risente di vari traumi familiari che fa annegare in una mestizia dalla quale cerca di distrarsi con qualsiasi tipo di impegno, comprese altre appartenenze; chi quei traumi li riconosce uno ad uno e si sforza anche di elaborarli, ma a un prezzo carissimo.
E' così, bisogna ammetterlo, perché solo per assoluta coincidenza un dato contesto familiare, cioè una data combinazione di soggetti psicologici, culturalità, situazione economica etc., è quello che fa per un dato essere. E quando pure lo è, l'idea del figlio appendice del genitore e suo debitore per averne ricevuto la vita resta un'aberrazione: è la condizione di partenza di un generale crimine in progress contro la sua soggettività. Si comincia col dirgli che ha preso tutto da questo o quel genitore o nonno, per passare poi ad altri raggiri, altri crimini piccoli e grandi, alcuni anche in perfetta cattiva fede.
Ne escono immuni i cinici, i superficiali, certi sempliciotti dalla pellaccia dura, poi basta. E il problema è che sono in numero più che sufficiente per presidiare i meccanismi che contano nella società. Cioè, sono solo loro a "fare". Quelli che la famiglia ha in vario modo ferito restano in vario modo avvolti in loro stessi.
Almeno per questo, bisognerebbe cominciare a considerare che la consuetudine di far figli in automatico, complice impeccabile di bisogni di aderenza alla cosiddetta normalità, di autoaffermazione, di riempimento di una vita che altrimenti non si saprebbe riempire e di imbullonamento della vita amorosa, cioè della donna dalla parte dell'uomo, è l'anima di una maggioranza malata, elementarmente timorosa della vita e indegna di una civiltà che si rispetti. Non dimentichiamo che la "morale" l'hanno inventata i maschi e che sulla donna ha attecchito soltanto facendo leva sul suo bisogno animale di maternità. Ma non c'è dubbio che la perdita di vita sia di entrambi, oltre che il destino dei loro figli: un vero olocausto di pace in progress.
E' il motivo per il quale dvremmo abituarci a non sbigottire all'ipotesi di una società futura - magari! - in cui i figli li facciano soltanto persone specializzate, persone vocazionate naturalmente e preparate disciplinarmente per l'edificazione di "nuove felicità"; abituarci a non prendere per vita la demografia.
Un tempo, questi problemi scatenavano tanto pensiero e importanti pamphlet; penso soprattutto a Ronald Laing e David Cooper - consiglio anzi la visione del vecchio Family life di Ken Loach, ispirato alle teorie di Laing. Oggi sembra invece che se si sia fatto un passo indietro; o meglio, che si stia segnando il passo, a dispetto di una storia-della-vita che naturalmente si evolve. C'è un po' di nuovo medioevo. Si ha paura della coscienza che si avrebbe biologicamente. Per questo, quei salutari focolai di pensiero sono stati smaltiti insieme a quelli fasulli come il bambino con l'acqua sporca; per questo si svaluta la vita interiore, si disprezza l'analisi, ci si accontenta di aggiustarsi la pelle, di schermare le proprie disgrazie con stronzate. Ma si intuisce che per molti la vita non dev'essere questo granché.

Qualche giorno fa, è entrato in libreria un tipo un po' tronfio in cerca di libri sulla lirica. Quasi mi redarguisce per averne visti in scaffale solo due o tre e borbotta che il disinteresse per la lirica è una gran vergogna; poi mi dice che lui ne è diventato pazzo dopo aver scoperto che suo nonno era stato l'amante di una certa cantante di rilievo. Ma qualche ora fa è successo di peggio. Un altro cliente mai visto prima, dall'aspetto dignitoso, mi chiede se ho fascicoli di Storia Illustrata; gli dico che non tratto riviste; mi chiede se ho il fascicolo speciale di quella rivista dedicato alla storia universale del mondo; gli dico che anche un volume così non è del tipo che tratto; mi chiede se so se è stato ristampato; gli rispondo che ovviamente non lo so; mi chiede quali materie tratto; gli rispondo letteratura, cinema, teatro, musica, arte, filosofia, politica e scienze umane e sociali; mi chiede se ho libri di medicina, mettendomi al corrente che il suo compianto padre faceva il medico, oltre ad essere abbonato a Storia Illustrata - credo di aver semplicemente sorriso, alzato le spalle, cose simili.

Poi, so di tanti amori che falliscono per terrore di appartenenza all'altro e/o eccesso di appartenenza ad altro, continuo a incrociare culture addicts incapaci di dubbio sull'opera di cosiddetti grandi e anche di accettarlo da parte di altri, sento tanta gente convinta che il senso alla vita lo dia solo il riempirla di checchessia, ma che autentiche convinzioni non sembra esprimerne mai, e mi accorgo sempre più che la gente che viaggia tanto dice assai di rado cose che non sia noiosissimo ascoltare.
A questo proposito, a chi viaggia al semplice scopo di visitare luoghi e monumenti segnalo con piacere che, se solo fossimo abituati a giudicare anche i monumenti dal punto di vista del gusto, anziché ammirarli senza metterli in relazione a nulla, cambierebbe tutto. E sarebbe una buona mossa.

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