- Chiamandomi Paolo Vitolo, non posso rivelare che un’origine del profondo Sud (purtroppo italiano), ma sono talmente profondo io che, al confronto, la presunta profondità di ogni radice geografica scompare.
- Sono nato nel 1954 e, considerando come sono, difficilmente sarei potuto nascere molto prima o poco dopo.
- Sono quasi un cancro puro, essendo bilancia ascendente cancro (sole in IV); e, dove non sono cancro, sono scorpione, avendo la luna in acquario (cioè in VIII). In altre parole, vita interiore un po’ trafficata.
- Data la mia costituzionale intolleranza a ogni frattura tra lavoro e magico quotidiano, dal 2000 faccio il libraio, anzi il bouquiniste, fortunatamente con la mia dolce metà.
1. Dopo un’adolescenza torbida, annacquata nel fascino discreto della borghesia, ma trascorsa avendo sempre nel cuore il fantasma della libertà e nella psiche qualche oscuro oggetto del desiderio (mi si conceda questo omaggio a un poeta del cinema che, nei suoi film, non ha mai parlato di cinema), ho capito che due sole cose della vita non mi suscitano il dubbio: l’amore e il piacere, entrambi in tutte le loro forme. Nel senso che, cambiando età, biologia, livello di riflessione e capacità di far collegamenti, ho sempre più nudamente inseguito queste due motivazioni a vivere, tralasciandone altre. Per questo, suppongo, non ho mai combinato granché nella vita. I dubbi, davvero cosmici, sul che cosa fare da grande – io, che a scuola ero stato sempre l’ultimo della classe – erano stati placati artificialmente da un’iscrizione alla facoltà di architettura: in realtà, indotta da una storia amorosa. Ma che fatica studiare, disegnare, fingere di inventare facendo null’altro che cose corrette. Non so come sia riuscito ad arrivare alla laurea. Probabilmente, per forza d’inerzia. Nel frattempo, le mie passioni erano principalmente il jazz (da puro ascoltatore) e il cinema (rigorosamente da anti-cinéphile). Quella per la letteratura andava un po’ scemando. Mentre le mie letture, sempre diradatissime, riguardavano soprattutto questioni di individuo e società. Avevo scoperto presto Guy Debord, Raoul Vaneigem, Henri Lefebvre, e avevo quasi rabbia di non aver scritto io quelle cose, tanto che mi ci ritrovavo. Ma soprattutto, in quello stesso frattempo, dopo storie e storielle, nazionali ed estere, avevo incontrato la donna della mia vita: Vilma, smagliante, mediterranea, esuberante e enigmatica, semplicemente strepitosa.
2. Forse per la difficoltà di gestire un rapporto che mi stava così a cuore, o per la paura di affrontare le cose dell’adultità da disallineato quale già ero, intorno ai 27 anni mi sono beccato una brutta depressione, durata anni e ramificata in tanti aspetti della mia vita. Fatto sta che, per corrispondere a quel mio stato di fragilità, o quasi per punirmelo, mi sono messo a fare il gallerista d’arte contemporanea: qualcosa che mi consentiva di avere un forte alibi ad ogni cattiva riuscita, dal momento che la materia mi ha fatto sempre sorridere. Da sempre ho considerato l’arte visiva in genere – connessa, appunto, alla vista, che è il più mentale dei nostri sensi – non più che un vezzo della borghesia sovrastrutturata, una roba che non tira, inesorabilmente distante dalla vita, dagli odori, dall’offrirsi agli autentici piaceri diretti; una roba astratta come il calcio o l’amore-di-dio che ci insegnavano a scuola nell’ora di religione - che sono invece sovrastrutture ad uso dei poveracci. Lo so, al suo posto avrei potuto tentare di occuparmi di musica, di cinema, di psicanalisi, di politica, ma sarebbe stato troppo per il modesto impegno con cui mi sentivo di affrontare qualsiasi “lavoro”. Per far bene le cose, quelle su cui si investe e da cui ci si aspetta esiti magniloquenti, bisogna essere, in fondo, un po’ fanatici, persino un po’ ottusi. Bisogna specializzarcisi. Una cosa terribile per uno come me. Comunque, gli anni della mia simulata militanza nell’arte (1988-98) mi hanno permesso di toccare per la prima volta qualche quattrino (oggi scomparso), di conoscere tante persone (raramente di valore), di masticare qualche lingua straniera (mai stato il mio forte) e, incredibilmente, di essere pseudo-portabandiera di una certa tendenza artistica, che veniva chiamata “interattiva” e riuniva un gruppuscolo di artisti off, in qualche modo anti-visivi, perché impegnati, per farla breve, a operare sui processi intercorrenti fra arte e pubblico - non faccio i loro nomi per non comprometterli. Ma più che di audacia, da parte mia, si era trattato di aver colto al volo un’area di pensiero complice della mia intolleranza a quel microcosmo lussuosamente ozioso e autoreferenziato. Altro che arte concettuale o neo-concettuale, come qualche babuino scriveva! Era il tentativo, ovviamente frustratissimo, di far entrare dell’extra-utile nella vita, di usarlo per preparare sgambetti al sistema! E un tentativo frustrato, perché i messaggi di quegli artisti erano comunque, inevitabilmente, filosofici, astratti e segmentati come la cultura borghese stessa. Non parlavano “di Maria” - per usare una metafora gaberiana.
3. Sicché, il 14 febbraio del ’98, facevo trionfare l’amore, il sogno e “la realtà” sulla specialità della galleria, cancellata dalla mia vita con un colpo di spugna. E che orgasmo sbaraccare lo spazio, farsi restituire con gli interessi la cauzione dell’affitto, tagliare i ponti con quel limbo inodore di sabbie spostate da una mano all’altra. Paolo, “Crunchy”, l’antifanatico, il “pupazzo anarchico”, riconquistava la sua libertà! Con in mano ancora qualche quattrino e, fortunatamente, ancora Vilma, che dell'arte non rimpiangeva un bell’accidente. Dalla monade che mi si era costruita intorno lungo l’esilio depressivo-finto artefilo, tentavo di sporgermi il più possibile. Volevo proprio tuffarmi nel mondo di libertà-sogno-realtà da cui l’arte mi aveva distolto. Spesso ne rimanevo deluso, troppa gente pas terrible. Forse perché la maggior parte del nuovo parco amici e conoscenti, in quel momento, proveniva dal coro di Vilma – quasi un contrapasso dantesco, per me che amo tanto la musica quanto detesto da sempre quella vocale, di qualsiasi tipo. Dico questo perché chi canta, soprattutto in coro, è un po’ come se svendesse alla disciplina e all’acrobazia il suo corpo, come se ne sacrificasse una parte di connotazione soggettiva. E allora, figuriamoci che livello di pensiero e di sentire può appartenergli! Solo Vilma è immune da questo, perché per lei, a sua detta, cantare è un po' uno shiatsu. Ma niente paura! Qualcosa di magico doveva pure spuntar fuori. Attendevo con ansia. Il problema, piuttosto, era che non avevo più né arte né parte, non avendo un’attività. Perché in questa società di lemming soltanto l'attività, anzi il lavoro, procura un ambito, un contesto, delle relazioni. Non si può mai contare su quello che si è e basta. Nessuno, per strada, ti riconosce mai come il meraviglioso mistero umano che sei, ti chiama, ti parla di lui e vuole sapere di te. Forse sarebbe un’utopia, ma risolverebbe di certo un po’ di problemi di infelicità della gente su questa terra. In quelle giornate apparentemente vuote, per forza disarticolate, avevo cominciato finalmente a scrivere sul jazz, la mia unica vera passione, per così dire, esterna alle “cose della vita”. Ma quell’iniziativa l’avevo presa proprio perché la mia passione non è affatto casuale. Perché il jazz non è soltanto musica, già di per sé la più psichica delle arti, ma è la musica più spudoratamente psichica, la sola realmente sganciata dall’interpretare una qualsiasi causa del falso, quale una vita di puro dramma (come quasi tutta la musica colta) o di pura persuasione (come in genere la musica pop) o di pura trasgressione (come il rock). Il jazz è per eccellenza la musica dell’autore-esecutore che mette in musica la mutevolezza reale degli stati d’animo; che sceglie e modella il suo approccio a uno strumento, dà il suo colore alla musica che suona (firmata da lui o no, non importa), struttura un gruppo, un sound e delle atmosfere che vuole trasmettere all’ascoltatore. Non dissipa l’energia psichica della musica in un testo. Il testo, invece, interessava a me scriverlo per dire queste cose a chi non le avesse capite, e perciò ho cominciato a scriverlo (verso la metà del ’99), dandogli l’impianto di un manualetto, con voci in ordine alfabetico su autori e movimenti, ma, contrariamente a come si fa in libri di quel tipo, offrendo un’informazione assolutamente ragionata e gerarchizzata, a costo di renderla talvolta lacunosa. Intanto, per sostenerci, Vilma ed io, vendevamo ogni tanto qualche opera d’arte ancora in nostro possesso. Io, poi, vendevo anche quello che mi restava dei miei libri d’arte, e li vendevo spesso molto bene. Al punto di immaginarmi libraio, bouquiniste, cosa che sono ancora oggi, dal marzo del 2000. Era stata una bella svolta nella mia vita. Sentirsi vomitato sul marciapiede come la galleria non poteva fare, e alla mercè di chiunque. Nuovi incontri, nuovi amici, nuovi soldi e, in tutto questo, nessuna passione bibliofila, né mia né di Vilma. I contenuti sì, ovviamente, ma, per il resto, contava il piacere di stare in vetrina come una puttana di Amsterdam. Aver costruito questa “situazione” mi faceva sentire rinato, al punto di volere ancora dell’altro. Ed è così che, poco dopo, ho provocato un altro bell’inizio: quello dell’analisi – con un freudiano “aggiornato”, per l’esattezza un kohoutiano. Meraviglioso. Avevo trovato la mia dimensione di verità, quella che mi aiutava a dar senso ai miei sbandamenti e a buttar fuori un po’ di bagarozzi. Tra me e questo analista, col quale ho fatto circa cinque anni di analisi individuale e uno di terapia di gruppo, sopravvive una commovente stima reciproca.
4. Dalla metà del 2001, purtroppo, la mia nuova pace con me stesso era stata perturbata da un brutto male fisico, un male di intestino e di prostata; antieroico e psichicissimo come tutto me; di quelli che non mandano all’altro mondo, ma che consentono di godersi la vita con qualche riserva. Cacche a tutto spiano, pisce sofferenziali, erezioni sfilacciate, orgasmi con rinculo; roba che fa felice solo un ipocondriaco che vuol dare dignità alla sua andropausa. Oggi, col senno di poi, potrei anche immaginare che il mio inconscio lo abbia scatenato per dare copertura fisica al mio senso di inadeguatezza, oppure per aggredire con un fatto grave Vilma, che troppo spesso mi sembrava meno amorosa di quanto desiderassi. Per me era comunque uno strazio e basta, una disgrazia che non ci voleva. E, se lo era il male in sé, non erano affatto da meno visite mediche, accertamenti, analisi e terapie. Tutti a dirmi “prova a far questo!”, “prova a far quello!”, tanto ero io che dovevo farlo. E i medici, tradizionali o alternativi che fossero, “smetta di bere!”, “smetta di fumare!”, quando vino rosso e sigarette ce sont moi! Stavo avendo un impatto frontale con l’attitudine al sacrificio degli italiani, di cui gli italiani non si rendono conto, come del loro cattolicesimo, spesso complice delle più spietate truffe, purché confessate, ma mai di una vita di piaceri diretti. E non erano possibili mediazioni: per guarire, dovevo vivere più o meno come un vegetale, appagato unicamente dal perfetto funzionamento del corpo, che avrei dovuto dunque prosciugare del mio soggetto, puntualmente affamato di ritualità e compensazioni. Cose da italianetti, quelli col soldatino interiore! Dio se ne scappi e ci liberi! Ma il problema, a quel punto, non era soltanto che le mie parti basse rognavano; era anche quello di un paese che cominciava a diventare imbarazzante: Berlusca, la tv che ormai irrorava tutte le circolazioni sanguigne degli italiani, le sinapsi degli italiani che cominciavano a far cilecca. E io, da libraio, naturalmente ne risentivo. Spesso, per contrappesarmi, mi mettevo a rileggere i miei vecchi cari Nietzsche, Stirner, Debord, Vaneigem, oppure Marcuse, Ronald Laing, Norman Brown, ma così mi incazzavo ancora peggio, e, ovviamente con una collaborazione impeccabile delle mie parti basse. In quel tempo, primavera 2002, la Bruno Mondadori aveva persino pubblicato il mio libro, che si chiamava Guida al jazz, ma così tardi che erano già tante le parti che avrei voluto modificarne. Soprattutto ero pentito di averlo concepito con uno spirito un po’ pedagogico: solo gli autori che hanno inventato e “formato”, esaminati solo nelle produzioni “formanti”, e poi, dopo gli anni ’70, il vuoto. Qualcuno me lo aveva detto, e qualche recensore lo aveva anche scritto, stroncando per questo il libro. Ma… che ci si vuol fare? Uno ha in testa quello che ha, e sarebbe veramente un bell’affare se i consigli si potessero seguire senza far perdere peso specifico alla zona più temporaneamente autonoma del sé. Fortunatamente, però, il mio libro dev’essere piaciuto lo stesso, dal momento che si è venduto bene, nonostante i miei rifiuti ad ogni offerta di presentazione – quelle cose tristissime!
5. Ancora più triste, in ogni caso, è stata l’atmosfera degli anni 2003-2004-2005, perché ho dovuto occuparmi troppo dei miei problemi e troppo poco dei miei piaceri. La mia salute peggiorava e quella della libreria anche. Sempre meno clienti, meno interlocutori, meno avventura, meno soldi. L’Italia era diventata davvero quel "paese senza" avvertito da Arbasino, con Milano al primo posto. Senza memoria, senza pensiero, senza gusto, senza amore. Si incontravano solo cretini, suscettibili e permalosi. Gente che non aveva opinioni personali, che anzi le disprezzava, ma sempre pronta a contraddire in automatico. E nel frattempo, sfondando una porta spalancata, si faceva strada la "società del massaggio", postumo apparentemente inoffensivo della "società dello spettacolo" e, da queste parti, postumo analcolico della Milano-da-bere, perché fondata comunque sul principio di mettersi tutti in riga con l'iperattività che "corregge" e non produce conseguenze. Che spazza via l'ozio, padre dei vizi. Era, ed è tuttora, la risposta virtuosa, francescana, trascendentale, della pseudo-sinistra al pan-materialismo, per giunta astratto e illusorio, che la destra ha introdotto dittatorialmente in questa società. E, tra le sue tante anime, ovviamente buddismo, yoga, PNL, veganismo, animalismo, volontarismo, discipline di ogni tipo che promettano potenzialità, benessere e coscienza pulita incondizionati. In realtà, strategie industriali di fuga da se stessi, un omologo da oratorio del modello di vita efficientista-manageriale. Ma il dramma è che questo attecchiva, come oggi, soprattutto nelle donne, specie a me cara. Donne che non era più possibile frequentare, perché avevano ogni sera il massaggio, la riunione di non so cosa, la meditazione, i preparativi per il pellegrinaggio a Santiago de Compostela e, intanto, tutte le lune di questo mondo. Di benessere in loro non se ne è mai visto. Per non dire della loro indifferenza agli scaffali della libreria: come se ci fossero state dentro solo bacche secche - ma, forse, di quelle si sarebbero occupate. Da allora, in effetti, la percezione della donna che ho da libraio si riduce a qualche affannata mamma che mi chiede dov'è la Libreria dei Ragazzi, purtroppo mia vicina di strada. Sembra di vivere in una società talebana. Sparite così tante o quasi tutte le amiche, ero rimasto davvero solo; del resto, non sono mai stato un affiliato dei raduni degli alpini. E la legge che impediva di fumare in bar e ristoranti, in vigore dal gennaio 2005, mi aveva inferto il colpo di grazia finale. Gli italianetti, oltretutto, fumatori o no, la ritenevano anche giusta; accettavano senza fiatare di andare a fumare di fuori, di interrompere la conversazione come quando si va a fare pipì. Tanto le loro conversazioni, orfane di opinioni personali, non potevano che essere aria fritta, e allontanarsene poteva anche essere un sollievo per qualcuno. Sempre racconti di fatti inutili, incommentabili, e sempre colmi di dettagli, inutilmente sequestranti. Racconti di malanni propri o altrui, di tragedie familiari, di casini sul lavoro, di viaggi inauditi o di ironie della sorte. Questo solo si ascoltava dagli italianetti, e, giustamente, anche l’ultimo dei coglioni poteva rompersi i coglioni. Soltanto che, per l’ultimo, il penultimo o il terzultimo dei coglioni, la “rappresentazione “ della socialità è tradizionalmente sufficiente a far sentire “in riga”, ciò che basta alle loro vite. Mentre, io dico, a quella stregua, che ci si incontra a fare? Che si intrecciano a fare dei rapporti? Fare del pour parler equivale a non parlare, come vedersi per “fare qualcosa”, cioè “assistere a qualcosa”, è semplicemente passare il tempo nello stesso luogo; non di più. E, per giunta, da spettatori. Altro che società di soggetti! Ma queste cose ovvie qui non le capisce mai nessuno. Vilma stessa mi capiva a singhiozzo quando facevo questi discorsi, fino a quando la sua testa non è andata proprio altrove. E allora, inevitabilmente, megacrisi di coppia – cose di questo mondo, d’altronde. Eppure è proprio da quella crisi e, fortunatamente, dal nostro ritrovamento che parte una vita nuova: leggera con coscienza e avventurosa, anche se con pochi fatti.
6. Non so come e perché, ma dall’anno accademico 2008-2009 mi si è riaccesa la speranza che si riaccenda il pensiero nella gente: che la “società del massaggio” non sia il destino di tutti quelli che non hanno il SUV, che possa esistere una sinistra di coscienza, non di sublimazione, che si facciano ancora barricate, che i barricadieri sappiano di usare la dimensione collettiva per difendere le loro soggettualità desideranti, che non si facciano più funerali, che chi si interessa a qualcosa non scivoli nel suo culto autoreferenziale, che gli anarchici stessi non si facciano più inghiottire dall'obbedienza a un modello di negatività, che viva tanto pensiero non alienato dall'intellettualismo, che nessuno pensi più che la cosiddetta cultura non si tocca, che nessuno più si accontenti né del pane né dei miliardi, che in tanti non credano più al metter su famiglia e/o far figli come missione implicita nella vita, che in tanti non abbiano più bisogno di credere in un aldilà, che in tanti non siano più schiavi dell'appartenenza, che in tanti capiscano che è un'aberrazione sentirsi fatti per ogni cosa, che in tanti non credano più a quella degenerazione soggetticida del senso di colpa che è il senso del dovere, che in tanti capiscano l'importanza del pregiudizio individuale e la miseria di quello culturale, che in tanti capiscano che dar consigli è qualcosa che funziona soltanto da idiota a più idiota, che in tanti scoprano l’incanto edonistico del sentimento. Ma non smetto neppure di sognare l'impossibile: cioè, una società veramente senza classi, senza dio, senza imperi, senza servi e padroni, senza sacrifici viventi, e una forza del desiderio individuale che sovrasti la sommarietà fascista della natura, che consenta a chiunque di decidere del suo corpo, del suo sesso, del suo aspetto fisico, della tipologia delle sue emozioni, della durata della sua vita, addirittura di scegliere un'età permanente. Allora sì che si sarebbe tutti più autentici, tutti inconfondibili, forse anche tutti demotivati al male. Peccato che cose così non sia neppure comune sognarle.
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